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 2022  aprile 23 Sabato calendario

Intervista a Piero Craveri


Nipote di Benedetto Croce, di cui oggi cura l’eredità intellettuale, considera Pannunzio, Valiani e Pannella i suoi riferimenti. Ha studiato il percorso unitario, successi e sconfitte dell’Italia dall’Ottocento a oggi. E del presente dice: “Restiamo un Paese fragile, piantato sulle palafitte”
Il volto di Piero Craveri rinvia direttamente a Benedetto Croce. Ma sul nonno dice di non avere molte cose da raccontare. «Ero appena adolescente e osservavo questo autorevole vecchio chiudersi nel suo studio di Palazzo Filomarino a Napoli, o l’estate nelle stanze della Villa di Pollone in Piemonte.
Poteva riemergere con un’espressione tra l’enigmatico e l’ironico. Saturo per le persone che in quelle ore gli facevano visita. Una volta gli fu dato un mio piccolo componimento. Lo lesse restando imperturbabile.
Pensai all’indifferenza del mandarino. Forse era deluso.
Ma i bambini, e io lo ero, avvertono a volte l’insoddisfazione dell’adulto. Mio nonno morì nel 1952.
Un pezzo di Italia culturale fu sepolta con lui e un’altra parte cercò di sopravvivere portando avanti le sue idee».
Quanti anni avevi alla morte di Croce?
«Quattordici. Un’età in cui cominci a capire qualcosa. Ma niente di definitivo. Studiare? Sì, certo. Ma senza furori o feticismi. Non era la scuola che doveva traghettarmi alla vita. Ma la testa. E la testa diceva che dovevo trovare riferimenti straordinari».
Che intendi?
«Non lo so, mi piaceva il sindacato, le lotte, l’impegno politico. Da giovane, negli anni in cui frequentavo il liceo Tasso, ero socialista. Poi, negli anni universitari, aderii all’Unione Goliardica Italiana».
Per l’Ugi passarono numerosi politici.
«L’aggettivo “goliardica”, che richiamava certi rituali medievali, poteva trarre in inganno. In realtà l’Ugi fu un movimento di impronta laica e antifascista. Proprio all’Ugi incontrai Marco Pannella. Avevo iniziato a scrivere per Il Mondo. Qualche recensione, più che veri articoli Poi ci fu la fondazione del partito radicale e la scissione. Pannunzio era il borghese illuminato. Ma avevo bisogno di qualcosa che scuotesse la visione delle cose. E la trovai in Marco Pannella».
All’università con chi ti laureasti?
«Con Francesco Calasso, era un giurista e uno storico del diritto. Esigente con noi studenti ma anche in grado di orientarti nella ricerca. Mi laureai con una tesi sui giuristi prima di Vico. Fu un modo per tornare a Napoli e immergermi nell’atmosfera crociana».
Francesco Calasso era il padre di Roberto?
«Sì, conobbi Roberto Calasso attraverso mia sorella Benedetta. Ricordo questo giovane, particolarmente brillante, che a volte frequentava casa di mia madre Elena Croce».
Si è parlato del “salotto” di Elena Croce.
«Molta di quell’atmosfera lei stessa la restituì raccontandola ne Lo snobismo liberale».
Che non era una categoria della politica.
«Per nulla, direi piuttosto la testimonianza vissuta in presa diretta di un mondo che si riconosceva attraverso una certa sprezzatura e che stava più o meno rapidamente sparendo, inghiottito dalla volgarità».
Che anni erano?
«Il libro uscì nel 1964. Anni di trasformazione repentina.
Di facile arricchimento. La casa di mia madre era frequentata da personaggi che ancora oggi restano nella memoria: Bobi Bazlen di cui era amica, a volte Adorno, spesso Pietro Citati, Zolla e Cristina Campo, Giovanni Macchia e tanti altri».
C’è un bellissimo ricordo che Macchia fa di tua madre: a un certo punto parla del Gattopardo e del fatto che fu lei a passare il manoscritto a Giorgio Bassani.
«È una storia che si conosce poco, anche per la discrezione dei protagonisti. Mia madre ebbe tra le mani il manoscritto di cui non si conosceva l’autore. Lo lesse, le piacque e lo affidò a Bassani che, oltre che amico, era allora segretario di redazione di Botteghe Oscure, la rivista fondata da Margherita Caetani. Bassani lavorava per Feltrinelli e fu lì che il capolavoro di Tomasi di Lampedusa vide la luce».
Che rapporto hai avuto con quel mondo?
«Tutt’altro che intrinseco. L’ho frequentato, certo. Ma mi occupavo di altre cose: di politica e di storia. Quel mondo cui alludi è stato importante ma del tutto marginale rispetto alla vita sociale e culturale romana degli anni Sessanta».
Lo dici quasi con un senso di liberazione.
«Non voglio darti questa impressione. Ne ero attratto.
Ma al tempo stesso mi chiedevo chi fossi, quale rapporto avrei potuto avere con il senso di inattualità che quel mondo emanava. Avevo scelto la politica e la storia, come ti dicevo, e mi sembrò giusto percorrere la mia strada. Perciò i miei riferimenti furono tra gli altri Pannunzio, Valiani, Pannella. Seguii quest’ultimo quando diede vita al nuovo partito radicale».
Che giudizio dai di Pannella?
«Una personalità forte, narcisistica e con una spiccata capacità di influenzare gli altri. Un leader, senz’altro.
Alcune sue battaglie hanno cambiato il costume italiano. Ma a un certo punto ho il sospetto che abbia sentito di non potercela fare a mutare il corso politico. Ha preferito incarnare un simbolo piuttosto che incidere realmente. È difficile da spiegare. Ma è come se da un certo punto in poi si sia cristallizzato e abbia personalizzato qualunque cosa gli provenisse dalla politica».
Che cosa hai preso da tuo padre e tua madre?
«Da mia madre ho preso quella distanza che per lei misurava il rapporto con la vita sociale, in me invece è il giusto spazio che mi consente di ragionare. Da mio padre credo di aver ereditato una certa inclinazione ai fatti. Raimondo Craveri è stato un uomo intellettualmente vivace. Fondò la Valtur quando in Italia il turismo era poco più di un sogno. Ma a pensarci bene non ho ereditato nessuna delle sue qualità imprenditoriali».
Lo dici quasi con rammarico.
«Beh, è stato un uomo poliedrico con un lato avventuroso. Durante la guerra fu reclutato dal generale Donovan per organizzare i lanci delle brigate partigiane. Si dedicò con coraggio a queste azioni attraversando più volte le linee nemiche. Con mia madre fondarono nel 1948 Lo spettatore italiano. I miei si separarono che avevo 18 anni. Papà scrisse anche diversi libri, uno perfino dedicato a Voltaire. La sua passione fu il calcio.
Suo padre, Enrico Craveri, fu per un certo periodo presidente della Juventus. Che dire ancora? Dopo la guerra entrò nell’ufficio studi della Banca Commerciale, fu amico di Raffaele Mattioli. Pietro Citati, che lo ha conosciuto bene, lo definì un dilettante di genio. Credo che la definizione gli corrisponda».
Di te che definizione daresti?
«Sono un uomo placido, spero non troppo noioso. Di professione faccio lo storico contemporaneo con incursioni nel mondo del diritto medievale e moderno.
Divenni professore alla Federico II nel 1980, nella facoltà di lettere, sotto la guida di Giuseppe Galasso. Nel 1983 Pannella mi chiese di essere capolista della lista radicale alle elezioni regionali e così divenni consigliere regionale e in seguito anche consigliere al Comune di Napoli. Ho perso sette anni in questa attività, ma ho imparato più cose di quante avrei appreso leggendo libri e giornali. Avevo già una certa esperienza perché in precedenza avevo diretto l’ufficio studi della Uil al fianco di Giorgio Benvenuto. Non ho in realtà mai fatto il sindacalista, se non dietro le quinte di quella organizzazione, non senza qualche responsabilità.
Passavo in quegli anni come un ispiratore della “destra” sindacale, quando, specie negli anni ‘70, il sindacato era fortemente rivendicativo, e fui interprete della svolta moderata del 1977. A Napoli mi dedicai molto alla difesa dell’ambiente. Ebbi un ruolo non secondario per non fare passare un progetto di radicale intervento nei Quartieri spagnoli. Oggi li attraverso per andare all’ateneo nel quale mi sono trasferito, l’Università Suor Orsola Benincasa, della quale sono stato preside della Facoltà di lettere; ancora sono presidente dell’Ente che detiene il suo patrimonio immobiliare».
Come guardi al patrimonio intellettuale di tuo nonno?
«Con attenzione e gratitudine. Devo molto a mia zia Alda Croce che è stata per me un punto di riferimento essenziale nel rapporto con l’opera e la memoria di Croce. Sono presidente della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce. Tra le diverse attività, come Fondazione, curiamo la pubblicazione dei suoi scritti».
So che sta per completarsi il carteggio tra Croce e Gentile. Cosa puoi dire di questa relazione?
«Vengo ora da una riunione sull’ultimo volume. Davvero quel carteggio è uno dei momenti fondamentali della cultura italiana».
Cosa pensi del loro contrasto filosofico?
«Non ho mai avuto una predilezione per l’attualismo gentiliano. Quanto al contrasto con il nonno, oltre all’aspetto filosofico, su cui non vorrei entrare più di tanto, c’è il lato politico. Credo che la parabola di quel rapporto sia tutta politica e interna al pensiero di Gentile. Con la guerra rafforzò i suoi elementi di nazionalismo che lo spinsero ad avvicinarsi al fascismo.
E sull’adesione al fascismo Gentile costruì una forte posizione accademica che contribuì a condizionare la sua personalità».
Ammetterai che il suo impegno per la cultura è stato fondamentale.
«Lo fu come ministro quando riformò radicalmente i programmi scolastici, creando un ordinamento il cui smantellamento ha contribuito alla crisi della scuola. Ma lo fu anche come organizzatore e direttore dell’Enciclopedia Italiana, cui collaborarono tanti antifascisti».
E poi c’è il destino tragico di Gentile.
«Il suo omicidio fu un gesto assolutamente gratuito e crudele».
Sai come reagì tuo nonno?
«Ne fu segnato profondamente. Nel suo Diario registrò questa scossa fortissima, sottolineando la brutalità dell’evento, ma al tempo stesso si rammaricò della fine di un’amicizia trentennale provocata dal suo passaggio al fascismo».
Hai mai pensato come storico contemporaneo di riprendere i fili di quell’omicidio?
«No, altri lo hanno fatto».
Hai scritto su De Gasperi, sull’Arte del non governo, sulla democrazia incompiuta.
«Sì, e ora mi sto occupando nuovamente della crisi dello Stato liberale».
Cosa vuol dire “democrazia incompiuta”?
«Una democrazia che non ha saputo soddisfare i fondamentali. Intendiamoci, nei 150 anni e passa dall’unificazione, l’Italia è riuscita a colmare una distanza enorme che si era prodotta tra Sette e Ottocento. L’industrializzazione è arrivata solo alla fine dell’800. Però, con un grande sforzo, abbiamo unito un paese fortemente differenziato al suo interno. Certo, come è stato detto, fatta l’Italia occorreva fare gli italiani. La presenza invasiva della Chiesa ha pesato molto nel processo unitario. Restiamo un paese fragile, piantato sulle palafitte. Ma abbiamo avuto figure politiche di grandissimo spessore, a cominciare da De Gasperi. Ma oggi?».
È sull’oggi che confluisce l’incompiutezza della democrazia?
«No, la verità è che dalla democrazia incompiuta siamo passati alla post-democrazia».
Cosa significa?
«Siamo un paese dove si è frantumata l’organizzazione dei partiti, la loro credibilità. Chi regge il sistema? C’è una tendenza a privilegiare le leadership, oltretutto sempre più brevi e l’effetto è di svuotare il Parlamento dei suoi compiti. Parlerei di radicalizzazione. Lo vediamo in Italia, ma anche altrove in Occidente».
Ha ancora un senso il richiamo alle élite?
«Se stai pensando allo “snobismo liberale” su cui scrisse Elena Croce, sei fuori strada. Quel mondo è morto e sepolto. Quello era un ritratto tra le due guerre, anche feroce, di una borghesia tutta dedita all’arricchimento.
Mia madre aveva sotto gli occhi la nascita della società di massa cui contrapponeva una élite fondata su valori morali e intellettuali. Oggi si parla molto di rivolta contro le élite ma il senso è: distruggere le competenze.
Ci si illude che grazie alle nuove tecniche di comunicazione davvero uno valga uno. E che tutti possano dire la propria. Ti confesso che a volte ho la sensazione di sentirmi fuori dal mondo».
Ha i suoi vantaggi.
«Trovi? Mi pare di essere un sopravvissuto».