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 2022  aprile 23 Sabato calendario

Il Processo ad Abdeslam raccontato da Carrère


L’unico sopravvissuto del commando jihadista parla ma il suo voler passare da vittima non convince affatto Così come la sua “lezione morale” alle vittime vere
L’1. La confessione idea è di protrarre il più in là possibile il momento in cui ha capito che si trattava di attentati. I jihadisti che era andato a cercare in Ungheria o in Germania dovevano essere rimpatriati per ragioni umanitarie. Lui, quello che voleva, era partire per la Siria. Brahim, suo fratello, gli diceva che sarebbe stato più utile qui, che la Francia combatteva incessantemente i musulmani, li umiliava, li denigrava, e che chi accettava di essere uno shahid, un “martire”, riceveva un biglietto di sola andata per il paradiso. Ma è stato solo l’ 11 novembre che gli ha fatto incontrare, nel suo nascondiglio di Charleroi, Abdelhamid Abaaoud, che gli ha detto qualcosa di molto più preciso: era stato scelto per indossare, di lì a due giorni, una cintura esplosiva e farsi saltare in un attentato. È stato reclutato al posto di Abrini, come assicura quest’ultimo? Né l’uno né l’altro ci illumineranno su questo punto. «Non bisogna credere a tutto quello che dice Abrini», dice Abdeslam, «ma qualche volta dice la verità». Abbiamo soprattutto l’impressione, in questi ultimi tempi, che ognuno dei due cerchi di rubare la scena all’altro. Comunque sia, la notizia è uno shock per lui. Ma si lascia convincere. È solo durante la notte tra l’ 11 e il 12 che capisce che non sarà in grado di farlo, che non ha il fuoco sacro, che non ucciderà delle persone, la stessa cosa che si è detto, o che sostiene di essersi detto, Abrini. Ma è già sull’ottovolante. Il convoglio della morte è in marcia verso Parigi. È lui che guida la Clio. Brahim, sul sedile di dietro, scrive degli sms. Abrini non dice nulla. Nella villetta di Bobigny, gli danno la sua cintura esplosiva, ma non si parla di quello che succederà il giorno dopo. Si mangia in silenzio, sanno che fra 24 ore saranno tutti morti, tranne Abrini, che se la svigna senza avvertire nessuno e senza che si sappia come l’hanno presa gli altri. Il mattino del 13, Abdeslam esce in ricognizione con suo fratello. Lui assicura che non sapeva nulla degli altri obiettivi. Quello che doveva fare era innanzitutto depositare tre bombe umane allo Stade de France, poi farsi esplodere in un caffè del 18° arrondissement, un caffè d’angolo, dice, ma non ricorda più. Tutti gli altri agiscono in gruppi di tre, perché spedire da solo il combattente meno esperto? Mistero, come il nome del caffè. Quando rientrano a Bobigny, è già il momento di ripartire, anzi sono addirittura in ritardo. Abdeslam sale sulla Clio con i due iracheni che non parlano una parola di francese e Bilal Hadfi, che se la fa sotto dalla paura perché non è più così sicuro di aver voglia di morire a vent’anni. Sfortunatamente, Abdeslam non ha valutato bene i tempi di percorrenza durante la ricognizione e arrivano allo stadio quando la partita è già iniziata e senza biglietti: invece del grande massacro previsto, ci sarà un solo morto oltre ai tre kamikaze con le loro magliette del Bayern Monaco. Comunque sia, li deposita tutti e tre e poi prosegue fino al caffè individuato quella mattina. Prende un bicchiere al bancone. Guarda quei giovani, giovanissimi, che ballano e si divertono, che sono come lui. Non ce la fa. Non è fatto per queste cose. Risale sulla Clio, che non riparte. La abbandona. Compra un telefono. Chiama il suo amico Mohammed Amri. Gli spiega che ha fatto un «brutto botto». Un guasto, un incidente stradale, una rissa? Non è chiaro per nessuno. Amri gli dice che non può, sta lavorando. Abdeslam insiste, è nella merda. «Va bene», dice Amri, «vediamo che posso fare», prova a chiamare Attou. Con i pochi soldi che ha, Abdeslam prende un taxi, attraversa Parigi fino alla periferia sud. Le notizie alla radio «aumentano il mio sconforto», non immaginava l’ampiezza degli attentati. Il tassista, magrebino, ripete senza posa che «saremo noi, saremo noi musulmani a pagarne le conseguenze». A Montrouge, getta in un bidone la cintura che ha disattivato alla bell’e meglio, forse rischiando la vita. Poi, a Châtillon, si rifugia in un edificio, incontra altri ragazzi accampati a fumare nella tromba delle scale. Parlano degli attentati, guardano su un telefono immagini dei ristoranti, del Bataclan. A un certo punto si addormenta, la testa dentro il giaccone. Amri e Attou arrivano alle 4 del mattino. Lo descriveranno stravolto, come sonnambulo, e anche lui li descriverà nello stesso modo, perché finalmente hanno capito che sta succedendo in realtà, che cos’è il «brutto botto» di cui parlava. Li immaginiamo mentre corrono in autostrada verso Bruxelles nella Golf di Amri, tutti e tre come sonnambuli, un sogno ad occhi aperti, un incubo febbrile, tranne il fatto che hanno attraversato senza intoppi tre posti di blocco della polizia e che al terzo una giornalista della radio belga li ha intervistati, gli ha chiesto che effetto gli facevano tutti quei posti di blocco, tutti quei controlli, e quei pochi secondi di intervista volante sono andati in onda e loro non hanno per niente l’aria stravolta, anzi semmai leggermente allegra, tre tizi sballati e ciarlieri: «Ci è sembrato un po’ un abuso», «Ah sì, è vero, un abuso…», «Ma abbiamo capito il perché, visto quello che succede è normale…». Circolate. Eccoli a Molenbeek. Ali Oulkadi raccoglie il testimone da Amri e Attou: racconterò questo troncone della storia la prossima settimana. Abdeslam raggiunge nel loro nascondiglio gli altri membri del gruppo, i fratelli El Bakraoui, Laachraoui e l’eterno accompagnatore Abrini, che gli apre la porta. Un momento difficile: deve spiegare ai fratelli che la sua cintura esplosiva non ha funzionato. Incredulità, collera, la discussione degenera, gli urlano in faccia, ma lui si attiene a quella versione, che oggi ripete che era una menzogna: la nuova versione è che ha rinunciato non per un problema tecnico né per vigliaccheria, ma «per umanità». Da quel momento, passa da un nascondiglio all’altro fino al 18 marzo, quando viene catturato, quattro giorni prima degli attentati alla metro e all’aeroporto di Bruxelles, a cui non sappiamo se avrebbe dovuto partecipare, ma questa è materia per il processo belga che ancora si deve celebrare e non ci riguarda.
2. La consolazione
Era il suo ultimo interrogatorio. Dopo averci menato per il naso in questi ultimi giorni come una stellina capricciosa («a volte parlo e a volte no», dipende se siete gentili con me e se le domande mi vanno a genio), ha annunciato che avrebbe fornito infine la sua verità, la versione ultima e definitiva, la versione per la storia, visto che di questo processo si parla come di un processo per la storia. La confessione è durata tre giorni, è stata più o meno convincente. Il terzo giorno c’è stata una specie di perorazione, in dialogo con la sua avvocata, Olivia Ronen ( eccellente, decisamente, salvo che, altrettanto decisamente, non mi piace che durante l’udienza lei lo chiami Salah). In quest’ultimo rettilineo, in ogni caso, è riuscito a commuovere. A fare breccia, come si dice. Ha parlato di sua madre, soffocato un singhiozzo che sembrava sincero. Ha chiesto perdono ai tre poveri diavoli, Amri, Attou e Oulkadi, che ha messo nella merda, e alle vittime, fra cui è evidente che annovera se stesso. Ha detto anche qualcosa di strano, sincero, penso, e al tempo stesso osceno. «Non so se le vittime nutrono rancore verso di me, ma gli dico: non lasciate che il rancore vi soffochi. C’è tanta oscurità in questa storia, ma c’è anche della luce che scaturisce fuori (…) Forse è inopportuno dire questa cosa davanti alle vittime, ma è quello che ho provato ascoltando alcune delle loro testimonianze. Sono uscite più forti da questa storia, sono diventate delle persone migliori, con qualità di quelle che non si trovano al supermercato…». Non voglio contraddirlo, è la stessa cosa che ho pensato io. Ma non sono sicuro che sia una consolazione per le vittime il fatto che lui si congratuli per la loro forza d’animo. Sfogliando i miei appunti dell’inizio del processo, in questo weekend di Pasqua, mi sono imbattuto in quest’altro finale di testimonianza: «All’uscita dall’ospedale, pensavo che avrei approfittato della vita al 200 per cento. E invece sono la metà di quello che ero prima, al massimo. La frase che vi dicono sempre, “quello che non ti uccide ti rende più forte”, sicuramente per qualcuno sarà vera, ma per me no. Continuo a lottare, ma è un ergastolo quello che mi sono beccato».
Traduzione di Fabio Galimberti