Robinson, 23 aprile 2022
Capire Putin
Scusate ma vorrei capire Putin. Forse entrerò in una lista di proscrizione: pazienza. Possibile che non ci si renda conto che capire l’avversario non significa giustificarlo, ma indovinarne in anticipo le mosse? È una delle regole- base della guerra, un’ovvietà che i militari conoscono meglio dei politici. Per questo, come europeo, non posso accettare che alla narrazione monomaniaca del Cremlino noi si opponga un’altra narrazione monomaniaca, né che alla surreale censura moscovita, la terra che ha visto nascere la filosofia e la democrazia risponda con un’autocensura tale da bollare come “russofilia” qualsiasi tentativo di indagare un evento complesso di simile portata. Sono russofilo – lo proclamo – così come sono ucrainofilo o francofilo, e so che nelle dittature i popoli non sono responsabili delle scelleratezze dei loro capi. Non ho mai letto tanti libri russi come in queste settimane per incontrare gli angeli e i demoni di quel mondo, e perché credo sia una scemenza rifiutarsi di capire, in un momento in cui non c’è europeo che non abbia perso il sonno chiedendosi cosa passa per la testa di quell’uomo solo, capace di premere il bottone della bomba nucleare. Così mi sono rivisto le foto e i filmati che documentano la parabola di Vladimir Vladimirovi?, per avvicinarmi all’enigma dell’uomo nato povero a Pietroburgo, la città, secondo Dostoeskij, «più premeditata del mondo «, la capitale nata dal nulla, a una latitudine inaudita, per ordine imperiale. La città martire, assediata per 900 giorni dai tedeschi, cuore letterario, politico, burocratico e militare della Russia; la città irreale dove il mare gela, delle notti bianche e delle aurore boreali, dove secondo Brodskij è più facile sopportare la solitudine che in qualsiasi altro luogo, perché la città stessa è sola.
Da lì inizia il cammino dell’uomo dallo sguardo di ghiaccio, in una galleria di immagini in cui ci si muove come tra i Quadri di un’esposizione di Modest Musorgskij, col solenne motivo della Promenade che ci accompagna di sala in sala fino allo stupefacente epilogo musicale: La Grande porta di Kiev, il luogo del contendere, la città-madre di tutte le Russie. Un viaggio non lombrosiano, ma psicologico, nei rari spiragli di uno sguardo criptato, compiuto tenendo d’occhio le ombre che gli si affollano intorno. Tra le quali ne emerge una, inattesa e gigantesca, che non è né Stalin né Pietro il Grande.
Prima immagine. Dresda, 1989
Tesserino personale del Kgb che dà accesso agli archivi della Stasi, i servizi segreti della Germania Orientale. Ha 37 anni, occhio inespressivo, quasi annoiato, da burocrate, basette e capelli lunghi stile anni Settanta, anche se già gli anni Ottanta stanno per finire. Nella notte del 9 novembre di quell’anno, lo coglie di sorpresa la caduta del Muro. In quelle ore, pare abbia tenuto a bada da solo cinquemila tedeschi inferociti scagliatisi sulla sede del Kgb, dicendo: «La mia pistola ha 12 proiettili e l’ultimo sarà per me». Mito, probabilmente. Suoi ex colleghi parlano piuttosto di un uomo pragmatico fino al cinismo. L’enigma Putin è già in nuce. Dicono che, da brava spia, egli abbia interpretato la caduta del sistema non come il collasso di un grande malato, ma come un complotto dell’Occidente, e abbia maturato da allora un oscuro senso di colpa per non averlo saputo sventare. Una sindrome da mancata sorveglianza.
Mosca, 1996
Accanto al presidente Eltsin, sembra una volpe artica di fronte a un traballante orso da circo. È capo assoluto dell’Fsb, i “servizi” che hanno sostituito il Kgb. La taglia smilza e l’occhio gelido sembrano rimarcare distanza dal monumentale presidente ubriacone, zimbello dell’Occidente, che legittima il saccheggio di un sistema basato sulle tangenti e l’impunità dei burocrati, e porta la Russia al definitivo sfacelo. Sono i “maledetti anni Novanta”, e dell’Urss è rimasto un cumulo di macerie. Dicono che gli sia stata affidata quella carica per la sua apparente, docile obbedienza. In realtà Putin si annida nel cuore del sistema per ottenerne le chiavi e dotarsi di una corte di pretoriani. Non ha illusioni democratiche, e, visitando il suo immenso Paese fuori controllo, vede come unico rimedio alla disintegrazione il potere assoluto di un uomo solo. Avverte la vulnerabilità di una terra circondata da nemici storici – dai popoli dell’Amur e dell’Ussuri fino ai Cosacchi del Don – e quasi privo di accessi ai mari d’Europa. Ma ne mette a fuoco il punto di forza: gas e petrolio, con cui tenere al guinzaglio il vicino Occidente e restituire alla Russia l’onore perduto.
Bari, 14 marzo 2003 (forse voleva dire 2008, ndr)
Basilica di San Nicola. Un momento intimo, non documentato da immagini. Dopo la parte ufficiale della visita di Stato, l’uomo di Pietroburgo scende col presidente del consiglio Prodi nella cripta con le spoglie del Santo. Niente giornalisti: solo due guardie del corpo e, forse, un interprete. Quei pochi vedono con stupore Vladimir Vladimirovi? inchinarsi davanti al santo più santo dei popoli ortodossi, disegnare nell’aria un elaborato segno di Croce con un cero acceso, poi stendersi a terra con tutto il corpo per baciare la pietra tombale di Nicola. È la definitiva archiviazione dell’ateismo di stato comunista. Dopo la liquidazione dell’ideologia, Putin sembra arrendersi al fatto che solo la fede può tenere unito un paese così enorme e spopolato. L’idea bizantina dell’impero cristiano si è ormai consolidata. La croce, dunque, come strumento di comando. “In hoc signo vinces”, il segno di Costantino, l’uomo che trasferendo il potere imperiale a Oriente nella città che avrà il suo nome, renderà possibile la santificazione della Terza Roma, Mosca. È il mito dell’unto dal Signore, l’imperatore che risveglia in tutto il mondo ortodosso l’archetipo del guerriero di luce contro le tenebre.
Siberia del Sud, 15 agosto 2007
Putin palestrato cavalca a torso nudo. È l’immagine archetipica del centauro, del dio Marte, l’uomo vero che non esita a impugnare le armi per difendere e ampliare il suo territorio. Anche qui, è il riemergere di una tradizione bizantina: quella, già romana, del cosiddetto (dagli storici) “imperialismo difensivo”, che vede nella creazione di stati-cuscinetto, alleati quando non completamente sottomessi, l’unica garanzia di difesa dell’impero dalle minacce esterne. Nella terra russa questo ha portato a una idea di cittadinanza armata che è passata anche ai Turchi, ai Bulgari e ai Serbo-montenegrini, dove è tuttora vivissima. Ma l’immagine del “macho”, fecondatore seriale, che eccelle nello judo e nuota nei fiumi siberiani nasce, allo stesso tempo, dalla consapevolezza della sconfortante, bassa natalità della Russia, un nano demografico in rapporto alla sua enormità territoriale. La paura di scomparire come popolo, fa sognare a Putin una Russia da mezzo miliardo di abitanti ma riduce la donna a sottomessa generatrice di soldati, e contiene in nuce un’ossessiva omofobia. Quella che sarà usata dal patriarcato moscovita persino per motivare l’attacco all’Ucraina. Con l’omosessualità intesa non come “degenerazione” autoprodotta, ma come contaminazione inoculata dall’Occidente. Di nuovo, l’idea del complotto.
Mosca, 7 maggio 2012
Penultimo insediamento al potere, allo scoccare del mezzogiorno dall’orologio del Cremlino. È l’apoteosi di una scenografia totalitaria, in piena tradizione zarista, che si ripeterà in forma quasi identica (e ancora più fastosa) sei anni dopo, il 7 maggio 2018. Lungo un tappeto rosso l’uomo, preceduto da una telecamera, sale in perfetta solitudine interminabili scaloni, poi una gigantesca porta dorata aperta da due soldati in uniforme ottocentesca, infine un lungo corridoio fra due ali di folla, che continua fino al podio dove infine il Capo ascolta l’inno russo, che poi è lo stesso della vecchia Urss, con il popolo degli invitati lì a cantare all’unisono il loro atto di sottomissione. Poi tocca al solenne giuramento, quello di un uomo che sorride sempre meno, trae potenza ipnotica dalla sua stessa fissità, e come Costantino diventa l’icona di stesso e del suo ruolo consacrato, metafora di un potere che va applicato severamente e solo dall’alto, magari con il Knut, lo scudiscio del boiardo.
Nella cerimonia, l’attraversamento degli spazi sembra ricalcare il film Arca russa di Aleksander Sokurov, girato nel 2002 su un unico, acrobatico piano sequenza lungo le sale del Palazzo d’Inverno a Pietroburgo, in un viaggio che attraversa la storia russa da Pietro il Grande fino agli attuali visitatori del museo Ermitage, scenografia perfetta del neozarismo putiniano. Un viaggio nello spazio, ma soprattutto nel tempo.
Mosca, 4 maggio 2013
Putin bacia il patriarca di Mosca, Kirill. Si mostra umile, sottomesso a Sua Beatitudine, che lo sovrasta di una ventina di centimetri con la mitria e lo avviluppa con la barba bianca e il manto carico di ori. È un bacio documentato da una pletora di immagini, scelte accuratamente, costruite per dimostrare la deferenza del potere “imperiale” nei confronti dell’autorità religiosa.
Chi sa di storia nota che la postura dello Zar ricalca meticolosamente quella di Costantino, raffigurata nei mosaici, davanti al potere religioso. È il segno che l’uomo del Baltico guarda già a un altro mare, il Bosforo. Non più a Pietro il Grande, che fondò Pietroburgo guardando a Occidente, ma all’imperatore che 1400 anni prima perpetuò la potenza romana nella direzione esattamente opposta. È il ritorno di Bisanzio: la cristallizzazione di un cesaropapismo che sottraendo da millenni al patriarca il potere temporale gliene offre tutti i crismi – dalla scorta di cosacchi in uniforme rossa e blu alla maxi Mercedes con le insegne del rango sulle fiancate, davanti alla quale il traffico di tutta Mosca deve fermarsi – in cambio dei quali il capo del Cremlino ottiene carta bianca per il suo dispotismo militarizzato.
Roma, 4 luglio 2019
Un salto in avanti di sei anni. Putin arriva dal Papa con un ritardo di cinquanta minuti, probabilmente calcolato. E quando Francesco sta per entrare nella sala delle udienze, con uno scatto, il russo gli taglia la strada per attraversare la porta prima di lui. Come il bacio a Kirill, anche questa è una mossa studiata per i fotografi: un modo per ricordare al popolo della Grande Madre che col Papa non vi è rapporto di subordinazione. Il segno di una ferita mai rimarginata, quella che qualsiasi pellegrino russo ( la comunità orante che di monastero in monastero percorre il paese vivendo di elemosine) rinfaccia a ogni occidentale che incontra: il sanguinario sacco di Costantinopoli perpetrato non dai Turchi ma dalla quarta crociata papista, che otto secoli fa inferse alla civiltà una perdita più grave del Sacco di Roma o del rogo della biblioteca di Alessandria. Un modo, il suo, per placare gli spiriti arcaici della Russia più profonda, dove la Croce incontra lo spirito pagano della betulla e dove dei “pazzi di Dio” urlano, oggi più di prima, contro la corruzione dell’Occidente. Un modo anche per dire: siamo stati noi, cristiani d’Oriente e non altri, a proteggere l’Europa dall’invasione islamica e poi a liberarla dalla peste hitleriana al prezzo di venti milioni di morti.
Trieste, mattina del 25 novembre 2013
Si inaugura un’edizione del G20. Putin è attesissimo. Per proteggerlo, i tetti della città sono pieni di tiratori scelti russi, un’inquietante occupazione armata carica di simbologie. Ma Putin non arriva. Anche qui il ritardo è un modo per mostrare potere. C’è bora e l’aria è gelata. Piazza Unità è transennata e deserta, e sotto le raffiche il picchetto d’onore scalpita, intirizzito. Il presidente del consiglio Enrico Letta, incappottato, aspetta, finché l’uomo nato sul Baltico arriva, due ore dopo il previsto, senza scusarsi. Sfida la bora in camicia e giacca e sale lo scalone con passo leggero. Poi si espone ai fotografi stravaccato a gambe larghe sulla poltrona accanto a Letta. Pare annoiato, estraneo alle decisioni da prendere. Ma si affaccia alla finestra, vede una città sul mare che sembra Pietroburgo. Forse gli tornano alla mente le mappe dell’Urss appese nelle stazioni ferroviarie o nelle aule scolastiche, mappe larghe dodici fusi orari con in basso a sinistra Trieste e in alto a destra l’Alaska. E allora, come per avere conferma di un pensiero fulmineo, chiede se a Trieste si parli anche slavo. E quando il presidente del consiglio gli risponde che sì, ci sono da sempre molti Sloveni e anche parecchi Serbi immigrati di recente, Vladimir Vladimirovi? sorride e commenta: «Bene, vedo che la Grande Madre è arrivata fin qui». Non è una boutade, ma la manifestazione spontanea della bulimia di un impero cui lo spazio non basta mai, e dove la Russia si erge a protettrice e garante di un mondo che non è più Occidente.
Mosca, 27 luglio 2018
Il patriarca Kirill e il metropolita di Kiev Onofrij celebrano per l’ultima volta assieme. Portano entrambi la folta barba d’ordinanza e, sul capo, una monumentale mitria scintillante d’oro, a forma di cupola a cipolla il primo, ogivale il secondo. Entrambi sentono di avere Dio dalla loro parte e rivendicano l’eredità di San Vladimir, principe di Kiev, che più di mille anni or sono fece battezzare il suo popolo nelle acque del Dnepr, portando il cristianesimo a Nord a latitudini impensabili, fino alle sponde dell’Artico. Ma la peste dell’autocefalia è già nell’aria. L’ucraino è visibilmente accigliato, il russo socchiude gli occhi, sornione. È la drammatica vigilia dello scisma che spezzerà la Triade popolo-fede-nazione. Momento chiave, sottovalutato dalle cancellerie occidentali, insensibili alle simbologie sacrali, dimentiche delle stragi perpetrate dai Crociati o delle innumerevoli guerre nate su istigazione dei prelati. In Shakespeare, Enrico V invade la Francia su consiglio del vescovo di Canterbury. Dietro a tutto, nuovamente, Costantino e il suo “In hoc signo vinces”, motto dove la Croce non è solo quella di Cristo ma anche una “decalcomania” dell’impianto urbano romano proiettato sui quattro punti cardinali del cosmo. Ma già nel motto che portò alla vittoria su Massenzio, l’orecchio coglie l’ambizione imperiale di conquista verso le terre dell’alba da cui venne la fede. Un’ambizione che può consentire di leggere persino l’intervento russo in Siria, «a patto che Assad garantisca il ritorno dei cristiani a guerra finita». L’idea dell’invasione nasce da quel divorzio tra patriarchi, non solo dalla spinta della Nato verso Est. È allora, e non nel febbraio del 2022, che Kirill offre a Putin l’assoluzione preventiva dai crimini contro il popolo fratello ma anche contro i Russi. Censura, repressione, terrore.
Mosca, 24 febbraio 2022
Putin dichiara guerra all’Ucraina. È seduto dietro un tavolo vuoto. Niente incartamenti. Non è più tempo di scartoffie. Dietro, la bandiera della Russia e quella con l’aquila bizantina del Patriarcato di Mosca. Scandisce parole a raffica intervallate da drammatici silenzi. Un discorso da brivido, lungo, meticoloso e rancoroso, inusuale per un uomo freddo e controllato come lui. È il salto della linea rossa, quella che non consente arretramenti o vie d’uscita, argomentato con motivazioni dalla micidiale coerenza interna da parte di un uomo chiuso in una visione unilaterale del mondo e prigioniero della sua stessa retorica. Un Putin, soprattutto, che non si misura più con l’effimero consenso elettorale ma con la storia. Condannato a governare a vita dopo aver costruito un potere che lo rende inamovibile, sa di non potersi permettere di essere ricordato nei secoli a venire come colui che ha perso Kiev, il luogo della conversione alla Croce, la culla del Ruskij Mir, il mondo russo, che ha consentito a Costantinopoli, la Seconda Roma, di rifugiarsi a Nord per passare il testimone alla Terza: la Mosca del Cremlino e San Basilio. Non è solo una guerra militare, ma una guerra santa contro la degenerazione occidentale che contamina l’Est, una missione per conto di Dio che non tiene in nessun conto nemmeno le sofferenze del popolo russo, tesa a strappare l’Ucraina dalle fauci dell’inferno materialista. «Se la Russia perde l’Ucraina, perde la testa», scriveva già nel 2014 il corrispondente della Rai da Mosca Sergio Canciani. Le conclusioni sono da brivido. Se proverete a toccarci, vi spezzerete le ossa, come Hitler, come Napoleone.
Mosca, 7 maggio 2018
È un breve salto indietro nel tempo, solo per immaginare il futuro. Un film di quattro minuti, che documenta l’uscita dall’ufficio presidenziale. Di nuovo un’esagerazione di spazi. In sei, forse settecento metri di sale e corridoi deserti, segnati dal solito tappeto rosso, la telecamera, arretrando davanti all’incedere militare del Capo, non fa che registrarne la solitudine. In tutto il percorso, nient’altro che un segretario, due custodi in divisa e due soldati in uniforme zarista. La moviola registra un andare rettilineo interrotto solo da due svolte, poi la discesa per un lungo scalone ricurvo, infine l’uscita all’aperto dove aspetta un autista irrigidito sull’attenti. È l’immagine di un autocrate inavvicinabile e restio a delegare, blindato in un potere assoluto che personifica il tragico isolamento della Russia. Un uomo che non legge internet, riceve solo rapporti scritti su carta e tiene gli altri capi di governo a distanza di sei metri all’altro capo di un tavolo ovale. Un monarca al quale nemmeno i collaboratori più stretti osano portare cattive notizie. Ma è anche la metafora di una fine possibile, l’uscita di scena dell’ex bambino nato povero, condannato a vincere o a sparire, secondo la spietata tradizione del cristianesimo orientale passata al mondo slavo. Un mondo dove re e imperatori non si depongono e basta, ma si mutilano, e dove per secoli è stato normale castrare gli eredi al trono, e accecare o amputare il naso e la lingua dei regnanti in disgrazia. La maledizione di Costantino.