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 2022  aprile 23 Sabato calendario

Yana Ross racconta i maschi tossici


Ritenuta dall’autore, lo scrittore americano David Foster Wallace (1962-2008), la sua opera più inquietante, Brevi interviste con uomini schifosi, raccolta di racconti del 1999, è un’antologia di interviste immaginarie con uomini sui loro rapporti con le donne, in cui i protagonisti cercano di nascondere le loro paure oppure ostentano spavaldamente i voli delle loro fantasie. Il libro è stato adattato sia per il palcoscenico che per il grande schermo. La versione teatrale della regista di origini lituane Yana Ross, una tra le artiste più attese alla Biennale Teatro 2022 diretta per il secondo anno da ricci/forte (24 giugno-3 luglio), si apre con una scena di sesso dal vivo interpretata da una coppia di attori porno, Katie Pears e Conny Dachs. Nessun erotismo, pura tecnica. Ma che di sicuro farà discutere.
I suoi lavori hanno spesso incontrato grandi autori del XIX secolo: Cechov, Ibsen, Bulgakov. Che cosa l’ha spinta a dedicarsi alla narrativa americana contemporanea?
«Ho un amore schizofrenico per il teatro, compio vagabondaggi tra testi classici e contemporanei. Sento il bisogno di indagare cosa è cambiato rispetto al passato e cosa è ancora presente nel nostro mondo. Autori classici come Ibsen o Cechov mi permettono di vedere attraverso quali mutazioni siamo transitati. Soprattutto Cechov, che trovo speciale. Ha scoperto il Dna dell’anima umana, utilizza un tempo che posso paragonare a oggi».
Perché David Foster Wallace?
«L’ho scoperto nel 2010; da allora mi ossessionano la densità e il rigore intellettuale della sua scrittura, il suo cupo sense of humor. Dieci anni durante i quali ho cercato un teatro che potesse darmi lo spazio, la libertà e il supporto per esplorare questo autore. Considero DFW, come Cechov, in un certo senso, puro genio. Un visionario, sempre in anticipo sui tempi: le storie che mettiamo in scena oggi, nel 2022, sembrano scritte adesso».
Qual è il criterio con cui ha selezionato i racconti da portare in scena?
«È stato difficile scegliere lungo quali percorsi guidare il pubblico, su cosa focalizzarsi. Attraverso una serie di workshop con gli attori abbiamo realizzato un collage sui temi che volevamo affrontare – mascolinità, sessualità, solitudine, perversioni, vecchiaia. Il più evidente è il machismo, la mascolinità estrema, come questi uomini chiedono attenzione, chiedono spazio per sé; e poi la famiglia, la genitorialità che crea questa mascolinità tossica».
Una vera scena di sesso interpretata da due attori porno: una provocazione?
«Ho scelto di collocare la scena di sesso all’inizio dello spettacolo per preparare il pubblico all’incontro con la potenza della provocazione intellettuale letteraria di DFW. La pornografia è nella sua scrittura, nel linguaggio brutale che utilizza».
Che tipo di reazione si aspetta?
«È la prima volta che incontro gli spettatori italiani, non so con quale profondità verrà accolto il mio lavoro. Ma sono fiduciosa, quello della Biennale è un pubblico abituato alle sfide – che ama essere sfidato —, dunque credo che ci sarà uno scambio e un dialogo costruttivo».
Come ha lavorato con gli attori?
«È la prima volta che faccio lavorare assieme professionisti del porno e attori che non hanno questa formazione. Perciò ho ingaggiato una “coordinatrice di intimità” (Kasia Szustow, ndr), una nuova figura professionale che proviene dal mondo del cinema, una specie di “regista” che coordina le scene di sesso. Qui la sfida è notevole perché il sesso non è simulato ma reale, anche lei ha imparato insieme a noi, con il procedere del lavoro, come fare dialogare, anche tra di loro, due gruppi di professionisti. Ci siamo resi conto di quanti pregiudizi abbiamo nei confronti del sesso, quanti cliché, quante paure! Abbiamo fatto le prove durante il secondo lockdown, la pandemia ci ha dato tempo e modo di lavorare con precisione, per rispettare le esigenze di tutti. E credo che questo in scena si percepisca».
Come è arrivata alla scelta di Katie Pears e Conny Dachs?
«È stata in buona parte una scelta dettata da intuizione, il teatro aveva aperto un casting online per i loro ruoli. Li ho incontrati in video durante il lockdown, era il periodo in cui ci si parlava su Zoom. Cercavo attori non solo con esperienza ma di forte personalità, qualcosa che andasse oltre il corpo o la sessualità. Katie e Conny sono veterani con un incredibile senso dell’umorismo, mi hanno del tutto sedotta. Ho sentito che erano le persone giuste per questa performance».
Che cosa pensa delle accuse di misoginia rivolte a DFW?
«Credo che in quanto maschio bianco, eterosessuale e privilegiato, sia stato incredibilmente coraggioso, e onesto, a chiamare le sue paure, compresa quella delle donne, con il loro nome, a dare loro una forma letteraria. È come se ci invitasse a indagare con lui queste zone buie. Ho deciso di leggere il testo in una prospettiva femminista radicale. È ovvio che l’intervistatrice è una donna, una specie di giovane accademica femminista che realizza queste interviste a scopo di ricerca. Ed è chiaro che Wallace non osa rendere concreto questo personaggio. C’è un coraggio radicale in questo: portando “fuori” questa donna, elimina anche la possibilità della sua oggettivazione. Trovo che sia un modo intelligente e costruttivo di dimostrare attivismo e impegno in ambito femminista».
Il testo contiene rappresentazioni esplicite di violenza: stupri di massa; torture; violenze domestiche; umiliazioni psicologiche e corporali...
«Penso che DFW sia uno straordinario umanista. Soffre per ogni forma di violenza, di ogni dolore che ci infliggiamo reciprocamente come esseri umani. È un’anima gentile, vede queste orribili aggressioni, vede la violenza domestica, gli abusi all’interno della famiglia, ed è esplicito in questo senso: tutto questo è malvagità. Come società dobbiamo resistere, dobbiamo prenderci cura l’uno dell’altro, non infliggerci dolore e sofferenza. Il modo in cui lui pone le domande è estremamente provocatorio, quando parla del tabù dell’Olocausto – che non conosciamo perché lo stiamo dimenticando – è come se volesse lanciarci una bomba. Penso al genocidio in corso in Ucraina: è evidente che, finché non ci sentiamo minacciati direttamente, temi come la guerra non ci interessano, non ci toccano. La capacità dell’essere umano di dissociarsi è straordinaria, ma quello che dovremmo imparare a fare è provare empatia, compassione per l’altro».
«Brevi interviste» parla molto anche di solitudine...
«II sottotitolo dello spettacolo è 22 tipi di solitudine. Mi sono ispirata a una intervista radiofonica di DFW in cui parlava della nostra incapacità di connetterci gli uni con gli altri, una incapacità legata al fatto che indossiamo molte maschere, che ci caliamo in ruoli che poi è difficile abbandonare. Viviamo in una bolla di solitudine, una bolla che credo DFW abbia provato sulla propria pelle, nonostante fosse famoso e acclamato. Tuttavia la sua scrittura non è affatto melanconica, anzi è divertente, ironica. Il suo lavoro riguarda senz’altro la nostra incapacità di stare insieme, di relazionarci».
C’è un filo che attraversa le sue indagini teatrali?
«Vivo negli Stati Uniti, ma appartengo anche all’Europa dell’Est, a cui le mie origini solo legate, per cui il tema dell’identità è molto presente nel mio lavoro. Mi interessano i traumi legati alla genitorialità tossica, che produce adulti incapaci di essere indipendenti, inabilitati a riconoscere le proprie capacità. Ai miei attori dico sempre che il teatro non esisterebbe se non ci fossero “cattivi” genitori».