La Lettura, 23 aprile 2022
Intervista a Lee Daniels. Parla di Billie Holiday
«Gli alberi del sud danno uno strano frutto / sangue sulle foglie e sangue sulle radici / corpi neri dondolano nella brezza del sud / strano frutto appeso agli alberi di pioppo». Non si può dire di conoscere Billie Holiday senza capire perché il suo destino sia così intimamente intrecciato al brano Strange Fruit: «Southern trees bear a strange fruit/ Blood on the leaves and blood at the root/ Black bodies swingin’ in the Southern breeze/ strange fruit hanging from the poplar trees».
Era nata come poesia, Bitter Fruit, scritta dall’insegnante Abel Meeropol dopo avere visto la fotografia di due vittime di un linciaggio in Indiana, che si decise poi a musicare per farla circolare meglio, iniziando a cantarla lui stesso con la moglie Anne e la cantante Laura Duncan. Erano anni atroci per i neri d’America. Nel 1937 il Senato aveva preso in esame un progetto di legge per proibire definitivamente il linciaggio di cittadini afroamericani. Non passò; e non era la prima volta. Quella canzone che Billie Holiday cantò per la prima volta al Café Society di New York nel marzo 1939 divenne la sua condanna.
Eleanora Fagan aveva 23 anni, si era fatta conoscere cantando nella band di Count Basie: come nome d’arte aveva scelto il cognome del padre, Holiday (i genitori non erano sposati), morto di cancro dopo essere stato allontanato da un ospedale perché nero. «Il governo americano provò in maniera ossessiva, letteralmente, a fermare questa donna. Non la protesse la sua fama, né il suo talento; provarono a distruggerla», racconta a «la Lettura» Lee Daniels, regista e produttore del film Gli Stati Uniti contro Billie Holiday, in arrivo in sala il 5 maggio per Bim, con Andra Day nei panni della grande musicista. «Una storia che andava raccontata. E neanche uno come me, convinto di conoscere le vicende degli afroamericani, ne sapeva abbastanza».
Come l’ha scoperta allora?
«Merito della sceneggiatura che Suzan Lori-Parks, prima donna nera a vincere il Pulitzer, ha tratto dal capitolo su Billie Holiday dal libro di Johann Hari Chasing The Scream: The First and Last Days of the War on Drugs. Un lavoro davvero straordinario. Mi ha fatto capire l’importanza di Strange Fruits. Come avevo fatto a non coglierla prima così bene? Per questo ho voluto fare il film, perché nessuno potesse rimanere all’oscuro. Dobbiamo scavare nella nostra storia. Non sono un politico né un attivista, lo dico da narratore».
Perché il governo americano non voleva che Lady Day cantasse in pubblico quel pezzo?
«Perché divenne subito l’inno della battaglia contro quella barbarie, una canzone di protesta. Usarono la sua tossicodipendenza per arrestarla e portarla a processo. Usarono tutto contro di lei: il suo rapporto tormentato con gli uomini, il suo passato doloroso. Ma lei non smise mai di cantarla. Quando pensiamo ai leader delle battaglie per i diritti civili dei neri, i nomi che ci vengono in mente sono quelli di Martin Luther King, Malcolm X, Rosa Parks. Non pensiamo a lei: anche io la consideravo una delle più grandi cantanti jazz mai esistite, una donna affascinante e tormentata, con problemi con la legge, segnata dalle dipendenze».
Una vita tragica: morì a 44 anni il 17 luglio 1959 in ospedale, in stato di arresto. Una donna dal carattere non facile, così la racconta il suo film.
«Non abbiamo voluto fare il ritratto di una vittima: il sistema la prese di mira ma, come ho detto, non riuscì a piegarla. Abbiamo voluto essere fedeli al suo spirito. Holiday continuò a cantare Strange Fruit fino alla fine, persino in ospedale, piantonata dagli agenti. L’immagine della povera tossica, dell’artista maledetta autodistruttiva, è quello che il potere ha voluto dare di lei, ma era una donna forte che non si è arresa. Abbiamo cercato di raccontarla com’era. Ovvero una cattiva ragazza, una leader, che sapeva badare bene a sé stessa, ma proprio per questo pagò un prezzo altissimo».
La figura chiave è il suo persecutore, Harry J. Anslinger, capo del Federal Bureau of Narcotics per 32 anni e 5 presidenti, da Hoover a Kennedy, il padre della guerra alla droga che prese di mira molti musicisti jazz.
«Fu lui, come ricostruisce bene Susan Lori-Parks nella sceneggiatura, a infiltrare nel giro di Billie Holiday un agente nero, Jimmy Fletcher, interpretato da Trevante Rhodes. Il suo obiettivo era dimostrare che i neri, attraverso la musica e la droga, volevano corrompere l’America. Quello che Anslinger non poteva prevedere, fu che lui si innamorasse di lei e prendesse coscienza che quello che stava facendo era sbagliato».
Per il suo film ha tenuto in conto il celebre biopic con Diana Ross, «La signora del blues», uscito nel 1972?
«Lo conoscevo, certo; avevo 13 anni quando l’ho visto al cinema e mi colpì tantissimo. Non avevo mai visto prima una storia d’amore tra neri sullo schermo, mai visto prima persone così belle e affascinanti come Diana Ross e Billy Dee Williams. Parlavano la nostra lingua, suonavano la nostra musica, erano parte della nostra cultura. Quel film mi ha segnato, credo che in qualche modo mi abbia spinto verso la regia. Ho scoperto meglio la musica di Billie Holiday dopo i trent’anni. Ma no, non lo abbiamo considerato per il nostro film. Era un’opera perfetta per l’epoca, allora noi neri avevamo bisogno di una love story, ma non era la sua vera storia. E il nostro non è un biopic. È il racconto dell’azione sistematica dell’apparato contro una donna considerata pericolosa».
Per interpretarla ha voluto un’esordiente, la cantante Andra Day che grazie a questo ruolo ha vinto il Golden Globe come migliore attrice. Come l’ha scelta?
«Mi era già capitato in Preciuos di scegliere una protagonista esordiente, Gabourey Sidibe. A dire la verità, Andra non voleva farlo, sentiva troppo il peso della responsabilità di raccogliere l’eredità di Billie Holiday, voleva essere certa di fare la cosa giusta. Anch’io ero pieno di dubbi. Ma ha colto lo spirito di Billie, la sua interpretazione ha qualcosa di miracoloso. Non era un’artista come le altre, Holiday, ogni concerto mai uguale all’altro, la sua voce poteva essere un violino, un clarinetto, ogni volta uno strumento diverso. Ma tra i suoi standard non mancava mai Strange Fruit».
Strange Fruit fu eletta da «Time» nell’ultimo numero del 1999 come migliore canzone del XX secolo. «Non c’era nemmeno un leggero applauso nell’aria, all’inizio, poi solo una persona ha iniziato a battere nervosamente le mani e così tutti gli altri l’hanno seguito», ricordò Billie Holiday di quella prima esibizione al Café Society. Incisa nel dicembre 1939, ha venduto milioni di copie ed è tornata come colonna sonora del movimento Black lives matter.
L’8 marzo scorso il Senato americano ha finalmente approvato l’Emmett Till Anti-Lynching Act, la legge che dichiara illegale il linciaggio e lo rende punibile con una pena di 30 anni di carcere. Ci sono voluti oltre cent’anni e duecento tentativi falliti.