La Lettura, 23 aprile 2022
L’arte della fuga
Sparire, forse per sempre. E sparendo dire addio a vergogna e umiliazioni, ad anni di frustrazioni al lavoro e in famiglia. Non dovere più rendere conto ai parenti bulli, al superiore troppo esigente, alla moglie che non capisce, al collega prepotente. Evaporare come fanno i giapponesi. Cambiare identità e ricominciare, senza quel macigno sul cuore che impedisce di respirare, di soddisfare le aspettative, rispettare le scadenze, migliorare le performance. Johatsu – questo il loro nome – sono gli insospettabili che non tollerano più la loro esistenza in una società che non ammette fallimenti professionali e sentimentali. Circa 80 mila all’anno che diventano gocce di vapore. Un libro parla di loro, degli evaporati. Ma non è un trattato di sociologia, e nemmeno uno studio sugli stili di vita dell’estremo Oriente. È un romanzo con un detective e un cadavere. Un giallo. Lo ha scritto un italiano che vive a Tokyo, Tommaso Scotti. Si intitola Le due morti del signor Mihara (Longanesi).
C’è un nuovo caso da risolvere per l’ispettore nippoamericano Takeshi Nishida della squadra Omicidi della polizia di Tokyo, mezzosangue non perfettamente integrato (deve nascondere un occhio azzurro con le lenti a contatto colorate e ha dovuto litigare con la direttrice della scuola di sua figlia che caldeggiava una tintura nera per i capelli castani della bambina). Lo abbiamo già visto in azione: questo energumeno – per gli standard giapponesi —, straordinario osservatore dell’animo umano, ha risolto l’indagine dell’Ombrello dell’imperatore, esordio narrativo (di successo) dello scrittore che è laureato in Matematica, ama le arti marziali, la calligrafia e il pianoforte. Questa volta il cadavere ritrovato è, sembrerebbe, di Takaji Mihara, facoltoso uomo d’affari in pensione trafitto da un colpo di spada nel suo lussuoso appartamento. Soluzione all’apparenza facile: c’è il movente, c’è un sospettato che con la vittima pare avesse diverse questioni in sospeso, ci sono le telecamere del condominio. Ma qualcosa non torna. I deliri – non le confessioni – del presunto colpevole, le analisi del medico legale, la reazione particolare di un amico al momento di riconoscere il corpo. Ed ecco che torniamo nella zona d’ombra degli evaporati.
Non è così difficile far perdere le proprie tracce in Giappone, dove il rispetto della privacy – in particolare dei dati economici e finanziari – è sacro e la carta di identità un documento come un altro: non è obbligatorio averne una, figuriamoci portarla con sé. Degli 80 mila che ogni anno fuggono o tentano di fuggire (a tanto ammontano le denunce, ma potrebbero essere molti di più), si calcola che la grandissima parte sia ritrovata entro una settimana, «ma anche se il novanta per cento dei casi fosse risolto, sarebbero ottomila casi aperti all’anno», spiega bene un dialogo del libro. «E comunque la polizia si occupava di sparizioni fino a un certo punto. Non c’era un dipartimento dedicato. A meno che dietro non ci fosse un crimine, per lo più si limitava a raccogliere la notizia della scomparsa. La ricerca vera di solito la facevano gli investigatori di agenzie private». E se detective professionisti sono assoldati per rintracciare gli evaporati, allo stesso modo esistono operatori che preparano nuovi documenti e indirizzi di residenza a chi è disposto a pagare il servizio di «evaporazione» chiavi in mano.
Nel Giappone dove tutto è in vendita, perfino una fidanzata a noleggio (si possono ingaggiare attori per non sfigurare davanti a colleghi o amici), dove si molla tutto pur di non provare più vergogna, dove l’ansia di affrontare il mondo invita a chiudersi in una stanza (ecco gli hikikomori), dove si muore per il troppo lavoro (karoshi), c’è pure un quartiere della capitale che sulle carte non esiste: Sanya. Nel 1966 fu cancellato dalle mappe e ribattezzato. Questione di cattiva fama: la zona, dove fino a metà Ottocento si eseguivano le pene capitali (dal ponte delle lacrime, Namidabashi, i criminali potevano salutare i familiari «e versare con loro le ultime lacrime prima di essere crocifissi o bruciati vivi»), era – è – nota per accogliere «persone delle caste inferiori, macellai e conciatori», ma anche senzatetto e lavoratori a chiamata. Il luogo ideale per nascondersi. Per cambiare identità. E muoversi di nuovo leggeri, tra i vicoli di un distretto senza nome.
Un rompicapo per l’ispettore Nishida, perfetto protagonista di questo secondo episodio: conosce bene il Giappone, ci vive, ma non lo subisce, visto che il suo Dna per metà occidentale gli permette di vederne tutte le contraddizioni. Scotti lo segue nell’indagine ma anche nella vita privata. E non ci sono ciliegi in fiore, pacchettini magistralmente confezionati per fare gli auguri alla propria metà, e nemmeno chef stellati o tramonti mozzafiato. Piuttosto, un caldo micidiale, quantità indefinite di caffè Boss in lattina, lo sguardo furbo di Shigeru Kamezawa, proprietario della bettola dove si mangia un divino ramen, ma soprattutto si raccolgono utili informazioni. Vagando per Tokyo con Nishida, poi, facciamo conoscenza con l’agghiacciante fenomeno papa-katsu, quelle relazioni tra ragazzine e uomini maturi «alimentate a suon di quattrini», forma di prostituzione per comprarsi borse e abiti alla moda con relativo tariffario; impariamo cosa sono le dream box, camere a gas per disfarsi di cani e gatti che nessuno vuole più o può tenere in casa; apprendiamo che esistono scuole speciali per addestrare – raddrizzare – gli impiegati.
Più sciolto rispetto al precedente romanzo – non è obbligatorio spiegare tutto – Tommaso Scotti accompagna il lettore nel lato oscuro del Giappone, lontano dall’estetica kawaii, faccine sorridenti e colori pastello. Costruisce una trama complessa in una società complicata (ma quanto più della nostra?), svela pochi colpevoli e molte vittime, non solo l’identità di un cadavere. Per il signor Mihara e le sue due morti – bisogna arrivare in fondo per scoprire il perché del titolo – prova compassione. Come per gli insicuri, i sensibili, i sognatori ai quali è dedicato il libro (oltre che alla famiglia): «E a tutti quelli che almeno una volta hanno desiderato scomparire».