La Lettura, 23 aprile 2022
Il compleanno della squola media
Quest’anno è cifra tonda: sessant’anni. Tanti ne sono passati dall’approvazione della legge 1859 del 31 dicembre 1962, che finalmente introduceva lo stesso percorso scolastico per tutti gli alunni italiani almeno fino a 14 anni. Prima di allora il destino di un bambino era segnato già a dieci anni: finita la quinta elementare, infatti, solo pochi eletti potevano ambire al ginnasio (di cinque anni) e di lì al liceo e poi all’università, mentre gli altri – secondo un rigido criterio di selezione darwiniana basata sulla classe d’origine più che sui reali talenti del singolo – dopo tre anni di avviamento professionale finivano a bottega o in fabbrica.
Sessant’anni: ma si può ancora dire buon compleanno alla scuola media italiana? Che cosa resta, più di mezzo secolo dopo, dell’idea originaria di questa riforma che aspirava a ridurre le disuguaglianze e a garantire una migliore preparazione per tutti? E soprattutto, alla prova dei fatti, ha funzionato davvero? Quella che è stata un’indiscutibile conquista democratica per l’epoca in cui fu approvata, oggi fatica a nascondere i segni del tempo, tanto da apparire ormai come un edificio semi-pericolante. Apprendimenti al minimo, disuguaglianze al massimo (60 è anche la percentuale di ragazzi e ragazze che in Campania, in Calabria e in Sicilia – secondo i dati dei test Invalsi – escono dalla terza media con competenze matematiche di poco superiori alla quinta elementare), la scuola media promuove tutti: nell’ultimo report prima del Covid i respinti all’esame erano lo 0,2 per cento. Ma c’è poco da festeggiare: mandare tutti avanti è cosa assai diversa dal non lasciare indietro nessuno, come dovrebbe fare una scuola autenticamente inclusiva. Così si rinvia soltanto il problema, spostando le bocciature – che poi sono l’anticamera dell’abbandono scolastico – al primo biennio delle superiori.
«Non sono d’accordo che le medie siano l’anello debole della scuola – puntualizza Roberto Ricci, presidente dell’Invalsi, l’ente di valutazione che misura lo stato di salute delle nostre scuole —. Certamente non è accettabile che dopo otto anni di scuola uno studente su tre non abbia raggiunto il livello minimo di competenze neppure in italiano. Ma se la colpa fosse tutta e solo delle medie, assisteremmo a un miglioramento anche parziale alle superiori, cosa che non è». È però vero che tra gli 11 e i 14 anni esplodono le difficoltà e le disparità fra i ragazzi. Stando alle rilevazioni internazionali come il rapporto Timss (il prossimo è atteso a dicembre), i bambini italiani fino alla quarta elementare vanno tutto sommato a braccetto con la matematica, mentre dopo tre anni di medie risultano molto in ritardo rispetto ai loro coetanei di altri Paesi. Secondo Ricci la causa va fatta risalire semmai «al salto improvviso che c’è tra elementari e medie, che pesa tutto sui ragazzi. Gli istituti comprensivi (che uniscono primarie e secondarie di primo grado sotto un unico cappello e un unico preside, ndr) erano nati proprio per ridurre questa frattura ma sono rimasti delle realtà amministrative, mentre dal punto di vista della didattica non c’è stato alcun avvicinamento». E così la scuola media è rimasta una scuola a metà, con un’identità ibrida, ambigua: rientra nel primo ciclo d’istruzione insieme alla scuola primaria, però fin dal nome – scuola secondaria di primo grado – è apparentata al tratto successivo, quello della scuola secondaria di secondo grado, cioè delle superiori.
Nel 2000 l’allora ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer aveva elaborato una proposta di riforma del sistema dei cicli – morta in culla – che proponeva di tagliare un anno alle medie accorpandole alle elementari in modo da avere un primo ciclo di sette anni e un secondo ciclo di cinque, con il vantaggio di diplomare i ragazzi a 18 anni (come accade ormai in molti altri Paesi) invece che a 19.
Questa ipotesi è stata rilanciata qualche anno fa dallo psicologo dell’evoluzione Cesare Cornoldi, autore insieme allo scomparso Giorgio Israel di un saggio dal titolo provocatorio: Abolire la scuola media (il Mulino, 2015). «Poiché mi rendo conto che abolirla del tutto sia difficile – precisa Cornoldi – in quel testo proponevo anche dei rimedi più a portata di mano. A partire da un ridimensionamento massiccio dei programmi e delle discipline, che consentisse di puntare maggiormente sulle competenze linguistiche e matematiche e sulle cosiddette life skills: la capacità di risolvere i problemi, di stare con gli altri, lo spirito d’iniziativa e la creatività». Attualmente l’orario della scuola media è articolato in 30 ore alla settimana ripartite fra 11 materie: 9 ore di italiano, storia e geografia; 6 di matematica e scienze; 3 di inglese; 2 di seconda lingua comunitaria, arte e immagine, tecnologia, scienze motorie e musica; una di religione (o di «alternativa»). Prima dei tagli della riforma Gelmini, c’erano delle ore di «compresenza» in cui due docenti, insieme in classe, potevano lavorare per piccoli gruppi, fare dei laboratori o attività di recupero. Adesso quasi tutto il tempo è occupato dalle lezioni frontali, secondo uno schema che appare superato e che non ha retto alla sfida imposta dalla pandemia e dalla Dad. Nelle grandi città, l’orario viene compresso su cinque giorni. Con il risultato di costringere dei preadolescenti di 11-12 anni a stare inchiodati al banco dalle otto alle due: figurarsi la soglia di attenzione all’ultima ora del venerdì. «Non dico di eliminare le materie, ma almeno bisognerebbe reintrodurre le compresenze – propone Cornoldi —. L’orario tutto spezzettato è anacronistico». Più facile a dirsi che a farsi. E non è soltanto questione di orari, ma di soldi: il governo Draghi aveva promesso di mantenere inalterato l’organico docenti nonostante il calo demografico, ma nell’ultimo Def è previsto, da qui al 2025, un taglio di mezzo punto di Pil per la spesa in istruzione. Si tratta di un calo molto più drastico del contemporaneo spopolamento delle classi, in corso ormai da qualche anno.
Raffaele Mantegazza, docente di Pedagogia alla Bicocca di Milano, andrebbe nella direzione opposta a Berlinguer: se toccasse a lui mettere mano a questo tratto di scuola, invece di incorporare le medie alle elementari, allungherebbe il percorso intermedio inglobando il primo biennio delle superiori. «Tre anni di scuola media sono troppo pochi: costringono ragazzi e professori a un’inutile rincorsa dei programmi, con verifiche e voti a raffica che servono solo a scatenare l’ansia. Mai come oggi, dopo due anni di Covid, i quattordicenni si sono mostrati in tutta la loro fragilità. Se ci fosse una scuola dagli 11 ai 16 anni, come in altri Paesi, si potrebbe anche usare il biennio per fare un lungo orientamento costruendo l’ultimo anno con un curricolo su misura delle scelte successive: chi andrà al classico potrebbe iniziare a studiare il latino, chi pensa allo scientifico potrebbe frequentare laboratori di fisica e così via».
Così però il liceo si ridurrebbe a tre anni. Marco Ricucci, docente di italiano e latino allo scientifico Leonardo di Milano, frena: secondo lui basterebbe allungare di un anno le medie, portandone la durata a quattro. Ricucci per dieci anni ha insegnato italiano, storia e geografia alle medie: «Ed è molto più impegnativo che alle superiori – dice —. A 11 anni i maschi non sono più bambini ma non sono ancora pienamente adolescenti, a 14 soprattutto le femmine sono già donne. Spesso poi ci sono situazioni difficili: alunni diversamente abili o con problemi personali certificati a livello medico, ragazzi stranieri arrivati da poco in Italia. E poi, un conto sono le scuole del centro, altro quelle di periferia. Il mio primo incarico l’ho avuto al Gratosoglio: fu un anno tosto ma molto gratificante perché ho avuto l’occasione di insegnare qualcosa, di lasciare un segno».
Resta il fatto che, in ogni rilevazione che li interpelli, la maggioranza dei professori non solo delle medie ma anche delle superiori lamenta di sentirsi sprovvista degli strumenti pedagogici necessari per affrontare la sfida educativa rappresentata da una classe di preadolescenti o adolescenti della generazione Z: di nativi digitali, insomma. Un compito reso immane dalla contemporanea rottura del patto educativo con le famiglie, come segnalato da un recente sondaggio Ipsos in cui, in testa ai problemi segnalati dai professori, compaiono le continue interferenze dei genitori nella quotidianità scolastica. Nel Pnrr il governo ha previsto un piano di riforma del sistema di formazione dei docenti incentrato proprio sul rafforzamento delle competenze anche relazionali che esulano dalla preparazione disciplinare pura e semplice. La contrarietà del mondo accademico e dei sindacati ha fatto tramontare la via maestra, che sarebbe stata quella di una laurea specifica per gli insegnanti delle medie e delle superiori, come già avviene per i loro colleghi delle elementari ai quali da più di vent’anni è richiesta una laurea in Scienze della formazione primaria. Il decreto in via di approvazione proprio in queste settimane prevede invece che per essere abilitati a insegnare sia necessario aggiungere alla laurea magistrale in una determinata materia, più o meno un altro anno di studio universitario in discipline psicopedagogiche e didattiche comprensivo di tirocinio in classe: un percorso più strutturato e serio della manciata di crediti – presi anche per corrispondenza – richiesti finora.
Quanto a ripensare il sistema dei cicli, non se ne parla proprio. Il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi, durante un recente videoforum al «Corriere», s’è detto d’accordo che la scuola media rappresenti uno dei passaggi più delicati del sistema scolastico e che ci sarebbe bisogno di un profondo ripensamento: «Non è né carne né pesce. Serve una scuola media che superi la rigida divisione disciplinare». Ma nel Piano nazionale di ripresa e resilienza, una vera riforma di questo tratto di scuola non è all’orizzonte. Sono previsti, è vero, importanti investimenti (1,1 miliardi) per il rafforzamento delle competenze degli alunni nei vari gradi scolastici, con un focus sulle discipline Stem, sul digitale e sulle lingue straniere (non sull’italiano, curiosamente). Altri 2,2 miliardi sono a disposizione per ridisegnare gli spazi in modo da rendere possibile una didattica innovativa: nuove scuole, nuove aule, nuovi laboratori. Ma l’unico investimento specifico per le medie è il miliardo e mezzo (da suddividere con le superiori) per ridurre i divari territoriali fra scuole del Nord e del Sud, del centro e delle periferie.
Purtroppo, fa notare Ricci, i risultati dell’Invalsi dimostrano che anche all’interno delle stesse scuole sopravvivono forti disparità, soprattutto al Sud, dove ancora ci sono classi ghetto, «classi cioè riservate agli studenti economicamente e culturalmente più fragili», con buona pace dei principi di uguaglianza e giustizia sociale che hanno guidato la mano del legislatore 60 anni fa. Di fronte a queste distorsioni, viene il dubbio che la media unica, più che essere invecchiata male, sia cresciuta poco e storta. E che tanta strada resti ancora da fare.