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 2022  aprile 23 Sabato calendario

Rigoni Stern e gli alpini

C’è un canto di una sola parola nel cuore di tutti gli alpini: Nikolaevka. Nessuna strofa, nessun verbo, nessun altro termine: solo Nikolaevka e un coro di dolore: «Nikolaevka Oh! Oh! Oh! Oh!». La compose tanti anni fa il maestro Bepi De Marzi, l’«autore ignoto» più celebre del mondo che una sera del 1958 creò quel miracolo del Signore delle cime, l’inno magico e struggente diffuso ormai nel mondo intero, dalla California al Giappone, fino a guadagnarsi la nomea di «canto popolare» nato chissà quando e dove grazie a un genio anonimo.
Lui stesso, commendatore della Repubblica voluto da Sergio Mattarella, è un alpino. E fierissimo di esserlo. Ma la data scelta per la Giornata della memoria e del sacrificio degli alpini, quella appunto della battaglia di Nikolaevka combattuta il 26 gennaio 1943 e destinata ovviamente a cozzare col 27 gennaio, Giorno della Memoria delle vittime dell’Olocausto, non gli va bene affatto: «C’è chi sta via via accatastando giornate per questa o quella ricorrenza e finisce per sconcertare le persone. Anzi, non vorrei che proprio questo fosse il disegno…»
Di più: è convinto che anche il suo amico Mario Rigoni Stern, se non se ne fosse andato anni fa, «avrebbe sulla scelta forti perplessità». Perché certo, non passava giorno in cui non ricordasse Il sergente nella neve e le steppe e il Ritorno sul Don dove aveva trovato «due vecchie che, saputo che ero italiano, mi indicarono col dito le galline. Beccavano il mangime in una delle nostre gavette. La presi, ci guardai dentro, mi sentii le gambe molli. Sul fondo c’era lo schizzo di un cuore con dentro una ragazza: era la gavetta del povero Marangoni».
Nelle Teche Rai c’è però una chicca preziosa, un servizio di TV7 su Nikolaevka del 3 febbraio 1963 che sollevò già allora un vespaio. Al punto che ne nacque un raro libriccino riassuntivo conservato nella biblioteca del Comune di Asiago.
Stretto intorno a un camino con altri amici sopravvissuti alla ritirata, lo scrittore che forse meglio aveva saputo raccontare quella tragica epopea si ribellò all’idea di narrare la disfatta come un poema eroico. E se una voce fuori campo ricordava come un bollettino dei russi stessi (bollettino un po’ contestato) avesse riconosciuto che «Il Corpo Alpino Italiano è l’unico tra gli eserciti invasori che deve ritenersi imbattuto in terra russa», lui e altri reduci raccontarono dei pastrani inadatti a proteggere a 40 gradi sottozero, degli alianti che rifornivano i tedeschi ma non gli alpini, della fame: «Chi pensava ai vostri rifornimenti?» «Eh! il Padreterno!» «Rubavamo un po’ di galline, un po’ di capre, qualche maialetto... Ci si arrangiava, insomma».
Più ancora, però, furono scomodissimi i ricordi sulla massa di italiani sbandati che non ce la facevano più e avevano buttato i fucili e si erano arresi al gelo e aspettavano solo di essere salvati, rendendo la situazione ancora più complicata per chi cercava di rompere e dare l’assalto per tirarsi dietro tutti gli altri. Voce fuori campo: «È vero che avete dovuto sparare contro gli sbandati?» E gli alpini: «Contro gli sbandati». «Ad un certo momento...». «È successo, è successo». «Ad un certo momento gli sbandati creavano un caos tale che bisognava sparare per aprirsi la strada...».
Era la guerra. La stramaledetta guerra. L’Associazione Nazionale Alpini però la prese malissimo. E istituì una «Commissione di indagine sulla trasmissione televisiva rubrica TV7 (battaglia di Nikolaevka)». Dove accusò gli «arcani reduci» di avere suscitato «una vasta eco di proteste» da parte di tanti alpini infastiditi dal tono della trasmissione, diciamo così, non agiografica. Ed ecco allegati un ordine del giorno dell’Ana che si lagnava di non essere stata informata dalla Rai, esprimeva «la più profonda indignazione» per l’intervista «subdolamente preparata e condotta» e improntata «a una comprovata slealtà» che avrebbe potuto «fornire pretesto a speculazioni politiche»… A farla corta: perché mai Mario Rigoni Stern aveva osato dire che molti alpini, «riusciti a scappare ai tedeschi dalla deportazione» erano finiti «con le brigate partigiane su, nelle nostre montagne»?
Giulio Andreotti, ministro della Difesa, promise con una lettera che al prossimo raduno degli alpini la televisione italiana «avrebbe trovato il modo» di farsi perdonare. Il ministro delle Poste Carlo Russo ed Ettore Bernabei rassicurarono e tutto parve finire in modo reciprocamente benedicente. Solo lui, lo scrittore asiaghese, tenne duro. E a Ettore Erizzo, il presidente dell’Ana che gli rinfacciava la «sgradevolissima impressione» avuta da tanti alpini e voleva sapere come e quanto era stato falsato, rispose duro: «Ho visto e ascoltato la trasmissione in parola e non mi sembra che sia stato falsato lo spirito di ciò che avevano inteso dire gli intervistati». Anzi: era «vera e umana». È lui, piuttosto, a dolersi che «sull’“Alpino Eroe” si vada tralignando come avviene per “L’Alpino-fiasco-di-vino” e che tutto quello che è avvenuto a seguito della trasmissione sia stata una grande montatura (forse elettorale) della destra più retriva e retorica». Come finì? Per anni e anni, ricorda il figlio Gianni Rigoni Stern, «papà se ne restò per conto suo e solo negli ultimi anni ricucì i rapporti».
Che cosa direbbe oggi di questa scelta sul 26 gennaio contestata in vistoso ritardo dalla sinistra alla Camera (solo Erasmo Palazzotto tentò all’ultimo istante di cambiarla con un emendamento subito bocciato) e poi passata senza problemi al Senato nonostante gli stessi alpini e la loro stessa rivista «l’Alpino» si fossero tenuti alla larga dalla cocciuta impuntatura della Lega e di Fratelli d’Italia, facendo sapere che poteva andar bene e forse meglio la data del 15 ottobre 1872, giorno della fondazione del corpo, avvenuta 150 anni fa esatti? Cosa che avrebbe tenuto insieme anche i soccorsi sul luogo di tanti disastri naturali e la ricostruzione del Ponte di Bassano e tanti altri esempi di generosità? Boh... Impossibile dirlo.
Certo è, però, perfino al di là delle sacrosante obiezioni di Liliana Segre e tanti altri, da Tomaso Montanari a Miguel Gotor, intorno allo scontato conflitto con la data in memoria della Shoah, che certi toni retorici declamati in Parlamento per esaltar la data di Nikolaevka alpini come Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern, Bepo Novello o Paolo Monelli non li usarono mai. Basti rileggere Tutti giovani sui vent’anni. Una storia degli alpini dal 1872 a oggi di Marco Mondini o Il coraggio di dire no dove Giuseppe Mendicino ha raccolto di Stern una serie di interventi straordinari.
Su tutti, forse, questo: «Nei miei libri io non uso mai la parola nemico o nemici. Uso sempre “loro” o i “russi”, perché effettivamente non erano nostri nemici. Questi uomini che io ho poi ritrovato nei campi di concentramento, erano gente come noi, uguali a noi, che avevano gli stessi nostri problemi, con qualche ragione in più di noi: difendevano la loro terra. Noi eravamo dalla parte del torto, non loro. Anzi dovevamo chiedergli scusa per essere entrati nella loro casa a portar guerra».