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 2022  aprile 23 Sabato calendario

Intervista a Teo Teocoli, lo sfigatò della Bardot

Antonio Teocoli da bambino lo chiamavano Nino, poi a un certo punto è diventato Teo. È cresciuto nella periferia della periferia di Milano ma è arrivato a frequentare i ricchi e famosi, quelli che negli anni 60 e 70 stavano a Saint-Tropez. Era fidanzato con la segretaria di Brigitte Bardot e «lei non capiva perché fossi sempre lì, mi guarda e dice: Come mai tutti sono in giro e tu sei qua? Teò, sfigatò». Ballerino strepitoso («Se avessi avuto vent’anni in America avrei fatto La febbre del sabato sera. Tony Manero ero io»), non era uno studente modello («Venivo sempre bocciato. Ho fatto Ragioneria, come Fantozzi»).
A Saint-Tropez si presenta con un motoscafino da 50 metri, il GA, Gianni Agnelli.
«Teo sei greco? No, italiano. Dove vivi? A Niguarda. Ma si scia da quelle parti? No, ma da Cusano Milanino si vedono le montagne. Andammo a cena con lui nel ristorante più caro di Saint-Tropez, mangiare costava come una 500, simulai una raffinata e signorile inappetenza. Temevo il conto, ma ero ingenuo: se c’è Agnelli al tavolo mica si fanno le quote».
Prima di Saint-Tropez, c’è Taranto dove è nato 77 anni fa, poi subito a Reggio Calabria: quando è arrivato a Milano lei era il terrone...
«All’epoca manco sapevano dove era Reggio Calabria, ci volevano due giorni per arrivarci con la Freccia del Sud che si fermava anche dal benzinaio. Erano dei treni che oggi sarebbero di lusso con il vellutino, gli scompartimenti, la retina per i bagagli: quando ero piccolo mi mettevano lì a dormire, a Paola si tiravano giù i finestrini e finalmente si respirava. A Reggio parlavo con il mio accento milanese e sembravo un tedesco; a Milano vivevamo una vita agra, abitavamo in uno scantinato, una specie di box, non avevo niente. Mio padre era in giro a cercare lavoro o qualcos’altro; mia madre faceva la sartina e la trattavano abbastanza male; la gente mi chiamava Africa, terùn, andalù. Il cartello Non si affitta ai meridionali era in bella vista».
I suoi genitori non le hanno insegnato proprio niente? Sua mamma?
«Mia mamma era figlia di giostrai, mio nonno e mia nonna li ho visti solo una volta, li ho conosciuti un pomeriggio in due ore, e poi non li ho più visti, non so nemmeno se sono morti».
Suo papà?
«Mio padre mi ha insegnato solo a parare i colpi perché era un po’ manesco. A quei tempi i ceffoni volavano, non come adesso; le pappine arrivavano in qualsiasi punto. Una volta sul tram mi diede una sberla sul coppino così forte che gelò l’aria, tutti zitti fino al capolinea a Niguarda. Era marinaio e credo che la guerra lo abbia rovinato: era troppo incazzoso, non voleva lavorare sotto padrone ma non aveva nemmeno la quinta elementare, cosa poteva fare? Nessuno poteva aiutarmi, abitavamo dietro l’Ospedale Maggiore, tra prati e canali di irrigazione limpidissimi dove facevamo il bagno».
Quando ha capito che sapeva far ridere?
«Ho sempre avuto una grande verve artistica fin da piccolo, facevo ridere, volevo essere sempre protagonista, facevo qualunque cosa pur di fare lo scemo, il pagliaccio. E poi cantavo bene: a scuola in cortile cantavo canzoni napoletane, ero carino quando mi pettinavo e tutti mi stavano ad ascoltare, era un momento di grande gloria e di piccola rivalsa».
A fine anni Sessanta è stato protagonista di «Hair», c’erano anche Renato Zero e Loredana Bertè.
«Loredana era già incazzosa all’epoca, quando le chiesi il nome, mise subito le cose in chiaro: saranno cazzi mia. Non pensavo sarebbe diventata famosa, perché era intonata ma non aveva una voce particolare. Renatino invece già scriveva dieci canzoni al giorno, bisognava chiuderlo nel camerino per farlo azzittire, così se le suonava da solo. All’epoca ero già amico di Adriano Celentano e fu lui a farmi fare Hair, perché tutte le cose che gli proponevano, le girava a me, diceva sempre: fatele fare al Teo. Andai a finire anche al Festival della Canzone Napoletana al posto suo dove cantai Carulina nun parte cchiù, una canzone più di merda non l’ho mai sentita in vita mia. Io presi 15 voti, vinse Modugno con 9 mila voti».
Come arrivò al cabaret?
«Frequentavo il Santa Tecla dove facevano jazz e ballo, lì c’era un pianista che si chiamava Enzo Jannacci, mi disse qualcosa di incomprensibile, non si capiva niente di quello che diceva perché biascicava. Fu lui a farmi conoscere il Derby e mi volle per il suo primo spettacolo, Saltimbanchi si muore, dove c’erano anche Cochi e Renato, Lino Toffolo. Il giorno del debutto – era la domenica pomeriggio – non rinunciai ad andare a vedere il Milan; arrivai con la radio in mano, la sciarpa e il cappello del Milan. Salii sul palco così e la gente rideva perché pensava fosse una gag».
Jannacci?
«Era un genio, faceva tutto e niente. Io mi sono sempre rimproverato di non aver cantato una delle sue canzoni, avrei dovuto interpretare Il dritto che era dedicata a me, pensata su di me, Festa nella casa popolare al 3 diceva: era dove abitavo io. Però la diede a Milva. Avrei dovuto chiedergli di scrivere un paio di canzoni per me come lui aveva fatto con Cochi e Renato, La vita l’è bela è un capolavoro che apre il cuore».
Celentano?
«L’ho aspettato sotto casa sua a 14 anni, pensavo si chiamasse Cedentano con la d, aveva già fatto successo, la somiglianza era nella faccia da terrone che avevamo tutti e due».
Vi sentite ancora?
«Per 20 anni il 6 gennaio abbiamo sempre festeggiato il suo compleanno con canzoni, scherzi, scemate di tutti i colori. Ho fatto anche una fuga d’amore con loro due, lui e Claudia Mori, e poi c’eravamo io e Miki Del Prete: siamo stati a Madonna di Campiglio in albergo un mese. Non so cosa c’entravamo noi, ma lui da solo senza gli amici si rompeva. Da due anni non ci sentiamo più, loro hanno paura anche di una zanzara, sono ipocondriaci, paurosi, non prendono l’aereo, la nave, nemmeno l’ascensore».
Senza Adriano
Tutte le cose che gli proponevano diceva: fatela fare a Teo. Da due anni non ci sentiamo più: lui e Claudia hanno ormai paura di tutto, anche di una zanzara
Al Bano non la salutava.
«Avevo messo un suo manifesto aggiungendo una g in mezzo al nome e si leggeva Al bagno, non l’aveva presa bene».
Boldi?
«Il nostro spettacolo Non lo sapessi ma lo so nel 1982 su Antenna 3 Lombardia fu un trionfo totale, lo guardavano tutti. Boldi era la vittima designata, non so che capelli avesse, ma quando gli tiravo una sberla i capelli rimanevano su. Però facevo molto più ridere io, avevo più numeri, con il ballo, con le parodie, con il trucco, ero più energico».
La Gialappa?
«Da spalla diventai protagonista, a Mai dire gol guadagnavo 3 milioni a puntata, c’era anche Gene Gnocchi che poi l’anno dopo non volle più esserci e non ho mai capito perché. Con Caccamo, Peo Pericoli e Vettorello coprivo quasi tutta l’Italia sportiva».
Come nacque Caccamo?
«L’abbigliamo me lo aveva ispirato Necco, il giornalista di 90° minuto. La parlata mi veniva da quell’anno e mezzo a Napoli dagli zii, avevo preso l’umore della città, i gagà parlavano così, li sentivi dire: Qua non succede mai niente, me ne vado da questa città. E dove vai? A Capri... Vidi quella giacca azzurra, era perfetta, ma strettissima. Anche quello fece gioco. Il regista poi sbagliò e bucò la cravatta, fu un errore geniale».
Galliani?
«Non lo conoscevo, ma vidi i suoi occhi e dissi: quelli possono anche essere i miei occhi».
Iniziò a imitarlo: con l’immancabile impermeabile e l’inseparabile cravatta gialla.
«Era compiaciuto, ma faceva già ridere da solo, quando esultava poi con la bocca storta...».
Ha fatto due Festival di Sanremo con Fazio.
«Se ne parla poco perché lo abbiamo sputtanato con quelle due edizioni, la gente non aspettava altro che uscissi io in mutande a imitare il sindaco Albertini, a cantare come Ray Charles, a parlare come Maldini: diventò un varietà, non più un festival della canzone. A Pavarotti piaceva molto Albertini in mutande, si divertiva come un matto. Una sera ci mancava un ospite, il maestro era lì che ascoltava: Faccio io. La sera dopo arrivò Bono degli U2... A fine Festival mi regalò una sveglia di Cartier».
Poi Fazio ruppe con la Rai...
«E io feci l’errore più grosso della mia vita: il contratto con Mediaset. L’errore non era andare a Canale 5 ma firmare senza mettere le cose scritte per bene. Dovevo fare Italiani con Bonolis e Laurenti, ma avevano già registrato la sigla senza di me. Non sapevo cosa fare, mi presentai per due puntate come ospite e poi me ne andai».
Passa per uno con un brutto carattere.
«Lo dicono tutti. Un tempo mi incazzavo molto spesso. Penso di essere il re del dettaglio e quindi invece di ragionare strillo subito».
Con chi ha litigato?
«Con Fatma Ruffini mi incazzavo molto quando tagliava i miei sketch: ma siamo matti, tu non tocchi la roba che faccio io, cosa puoi fare di meglio? Con la Gialappa mi sono incazzato perché continuavano a chiamare artisti di sinistra: troppi. Anche con Boldi, ma lui si spaventava e non reagiva. Gino e Michele dicono di me che un momento mi ammazzeresti e un altro mi adori. Il cambio di personalità e atteggiamento è qualcosa che forse mi ha lasciato mio padre».
Che fa ora?
«Lavoro ce n’è poco, in questa stagione ho fatto tre serate, ma dopo 60 anni posso anche riposarmi. Un artista però senza il lavoro non è niente, cosa altro può fare? Da sempre io mi applico solo nell’arte, tutto quello che ho imparato l’ho fatto vivendo come dice Mogol».
La pensione?
«Io morirò sul palcoscenico».