La Stampa, 23 aprile 2022
Intervista a Michele Serra
«Il 25 aprile è una data fondativa della nostra democrazia», ha detto oggi il capo dello Stato Sergio Mattarella. Eppure da anni, per una ragione o per l’altra, continuiamo a dividerci sulla sua importanza e sul suo significato. Accade – dice Michele Serra – «perché una parte consistente di italiani la considera una festa comunista. Facendo un grave torto alla verità storica. È la festa dell’antifascismo, che fu un fronte ampio, cattolici, comunisti, socialisti, repubblicani, liberali, azionisti: da quell’alleanza sarebbe poi nata la nostra Costituzione. Don Minzoni era un prete, Gobetti un liberale, Matteotti un socialista, non basta per capire che l’antagonismo non fu tra neri e rossi, ma tra fascismo e libertà? Il 25 aprile è il giorno in cui si celebra la morte della dittatura e, implicitamente, la nascita della democrazia. Che i comunisti in questo processo abbiano avuto una parte decisiva, specie nella guerra partigiana, non è colpa loro. Semmai, è un loro grande merito».
Il paragone con quel che sta accadendo oggi in Ucraina è considerato improprio da una parte della sinistra italiana, mentre un’altra pensa sia proprio questo che dobbiamo ricordare per capire cosa sta accadendo. Lo ha detto con parole chiare Liliana Segre qualche giorno fa: «Un popolo si è alzato e ha trovato l’invasor». Si possono comparare storie così diverse?
«Sì, si possono comparare tutte le storie dei popoli aggrediti che si ribellano all’invasore. A patto di farlo nel massimo rispetto delle differenze storiche, che sono rilevanti. E a patto di non usare una tragedia come questa per regolare i conti, di corto respiro, della politica italiana. In questo senso ho trovato pessimo il dibattito interno al centrosinistra. Una caciara irrispettosa e ingombrante, gente con l’elmetto che accusa chi è senza elmetto di essere amico di Putin, tartufi vecchi e giovani che leggono questa guerra come una manovra subdola dell’imperialismo americano. L’effetto, quasi grottesco, è che una guerra nazionalista fatta nel nome dei valori della Tradizione, che avrebbe dovuto mettere in difficoltà soprattutto la destra sovranista, ha lacerato la sinistra. Ho un forte sospetto. Che nella sinistra italiana ci sia una forte dose di scemenza. Con noi sedicenti intellettuali al primo posto in graduatoria».
Alcuni dicono: per noi era diverso perché potevamo vincere, Mussolini stava cadendo, gli alleati erano in arrivo. Insorgere contro un nemico tanto più potente invece non può che alimentare la carneficina. È così? La lotta per la libertà è legittima solo quando può essere vincente?
«La lotta per la libertà è legittima sempre. Non credo proprio che chi è salito in montagna nel ’43 fosse sicuro di vincere. Aveva i tedeschi in casa e i repubblichini alla schiena. Si calcola che i partigiani morti siano stati quasi cinquantamila. Quanto alla carneficina, Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e le Fosse Ardeatine non bastano? Dire che i partigiani presero le armi per godere delle comodità di una vittoria sicura è una porcheria. Chi lo dice è il tipico italianuzzo mediocre, che essendo ignobile non concepisce nobiltà. Allo stesso modo, trovo stupido e meschino giudicare la resistenza ucraina su una base di convenienza. Certo è legittimo e anche doveroso augurarsi che non ci sia una escalation, e che il conflitto non duri anni. Tifare per la pace non è un delitto, mi pare, soprattutto in considerazione del fatto che questa guerra ha già moltitudini di tifosi. Ma non so dare consigli nel merito, posso solo dire che di trattative di pace si parla sempre meno, e sempre più di armi e strategie di guerra».
Mano a mano che i testimoni di quegli anni ci lasciano, la nostra memoria collettiva si affievolisce: facciamo abbastanza per preservarla? O il 25 aprile sta diventando un rito stanco?
«Per me non lo è affatto. Ma non pretendo di insegnare a nessuno come fare i conti con la propria memoria. Il vecchio Giorgio Bocca, partigiano, mi diceva spesso che “la metà degli italiani è fascista”. Lo correggerei così: metà degli italiani non è antifascista. E dunque, non mi stupisce che a metà degli italiani del 25 aprile importi poco, oppure lo considerino con ostilità. La memoria di questo Paese non è una memoria condivisa. Non abbiamo fatto lo stesso lavoro su noi stessi che hanno fatto i tedeschi».
Per te bambino cosa significava questa data? E oggi?
«Per me bambino, niente. Sono nato in una famiglia di destra. Non fascista, ma non antifascista. Per me ragazzo, invece, il 25 aprile ha significato molto. Sapevo poco di fascismo e antifascismo. Ho capito meglio che cosa era successo anche grazie a quei cortei, quelle assemblee, quelle testimonianze. Sono grato a chi mi ha insegnato da quale storia venivo».
L’Anpi si è divisa, il suo presidente è stato criticato per le posizioni prese sulla guerra in Ucraina. Da cosa nasce questa frattura?
«Nasce da uno scarso pragmatismo e da un forsennato ideologismo. Bisognerebbe discutere, tutti, su come spegnere un incendio e risparmiare vite umane, e questo sarebbe pragmatismo. Al contrario, si sono formate due tribù ideologiche, il fondamentalismo occidentale da una parte, il disprezzo per la democrazia decadente e corrotta dall’altro. Io mi sento, in tutto e per tutto, un occidentale europeo, ma esattamente per questa ragione non voglio partecipare a una faida ideologica. Dirsi occidentali ha un senso se si assume il principio del dubbio e della discussione, altrimenti diventa una caricatura speculare al fanatismo reazionario di Putin».
È giusto inviare armi a un popolo che resiste e contro il quale è stata condotta un’aggressione che viola i trattati internazionali?
«Se fossi parlamentare avrei votato a favore, ma perdendo il sonno. Ogni escalation militare, di qualunque tipo e per qualunque causa, è un punto a favore della guerra e di chi nella guerra si sente a suo agio, per lucro o per indole umana».
È come se le priorità dentro le quali abbiamo finora vissuto fossero sovvertite: per larga parte della nostra vita, l’obiettivo comune pareva essere il disarmo mondiale bilaterale. Siamo dentro a un’altra storia?
«Ci siamo illusi di vivere in una storia nuova, era solo una breve vacanza dalla Storia, che è bestiale e sanguinaria. Quelli come Putin in guerra gongolano perché la guerra è la smentita più evidente al concetto di Progresso. La guerra è antica: è il primo dei Valori Tradizionali. E il concetto della Nazione è solo un’evoluzione del concetto di tribù. Anche per questo mi sgomenta, non trovo altro termine, scoprire che molti progressisti gongolano per la guerra, senza nemmeno la soddisfazione di poterla rivendicare come una cosa loro».
Ci avviciniamo a una nuova divisione del mondo in blocchi? Una nuova guerra fredda?
«Bisogna chiederlo a chi studia queste cose. Per adesso, vedo solo una guerra calda, con la distruzione delle città, il martirio dei civili, il solito vecchio scempio dei soldati ventenni mandati a morire da vecchi porci, come diceva Vonnegut in Mattatoio numero 5».
Una delle cose che fa paura, oltre agli orrori che vediamo ogni giorno, è la pervasività della propaganda. Credevamo che nel mondo nuovo, interconnesso, pieno di immagini, fosse più facile smascherarla. Non servissero staffette che diffondono volantini “sovversivi”. E invece non è così: la forza della propaganda è rimasta intatta. È questo che inquina il dibattito? O a farlo sono i rimasugli di vecchie ideologie?
«La propaganda, e le fake news, funzionano perché la maggioranza della gente ama sentirsi dire ciò di cui è già convinta. Come è sempre accaduto, sono le minoranze a dover difendere la ragione e il principio di realtà. Senza perdersi d’animo quando si rendono conto che le menzogne sono più efficaci della verità. È una forma di resistenza anche questa, e va fatta senza calcolare se si vince o si perde».
Per una copertina sul 25 aprile oggi che parole sceglieresti? O quale immagine?
«L’immagine dello scimmione di Odissea nello spazio che depone la clava e comincia a riflettere. Manca, in questi giorni, una riflessione sul genere umano, come ha detto giustamente Nicola La Gioia».
In tutto il mondo si canta Bella ciao, in alcune scuole italiane è stata considerata divisiva. Ha senso?
«Come ho già detto, non siamo un popolo con una memoria condivisa. Bisogna farcene una ragione. Io Bella Ciao la canto volentieri. Chi non la canta, non sa che cosa perde. Perde il piacere della libertà».