La Stampa, 23 aprile 2022
La carestia alle porte
È la stagione della semina in Ucraina, uno dei granai del mondo, che insieme alla Russia produce il 30% della fornitura mondiale di grano, il 20% di quella di mais e l’80% dell’olio di semi di girasole. Ma questa primavera è segnata dalla guerra e dalle sue conseguenze che stanno investendo non solo l’Ucraina invasa dall’esercito russo, ma il mondo intero, dipendente dal suo grano per l’approvvigionamento alimentare.
I prezzi dei generi alimentari hanno subito un’impennata già poche settimane dopo l’invasione, quando i combattimenti hanno interrotto le catene di approvvigionamento, gran parte delle infrastrutture necessarie alle esportazioni, compresi i porti e le linee ferroviarie, sono state distrutte o danneggiate e l’Ucraina ha vietato l’esportazione di alcuni cereali per proteggere le proprie forniture, creando un’immediata, generale, carenza di cibo.
L’Opec Basket, che misura i prezzi delle miscele di petrolio prodotte dai membri dell’Opec, è passato da 95 dollari il giorno prima che la Russia invadesse l’Ucraina a 120 dollari il 24 marzo 2022, il prezzo più alto dal 2014. Secondo la Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, i prezzi globali dei generi alimentari in meno di due mesi – tra febbraio e marzo – sono aumentati del 12%, cifra che corrisponde al più alto incremento dal 1990, anno in cui la Fao ha iniziato a monitorare l’indice dei prezzi del cibo.
Le conseguenze sono state immediate anche per le agenzie e le organizzazioni che si occupano di supportare i Paesi in via di sviluppo, il Programma alimentare mondiale (Wfp), la più grande organizzazione umanitaria in lotta contro la fame nel mondo, che ogni anno aiuta 80 milioni di persone in 83 Paesi, acquista il 50% del suo grano proprio dall’Ucraina, ed è per questo che il primo, drammatico richiamo sulle conseguenze della guerra in corso arriva dal suo direttore, David Beasley, che la settimana scorsa si è recato in Ucraina e da lì ha lanciato il suo appello al mondo: «È una catastrofe che si aggiunge alla catastrofe, prima della guerra in Ucraina stavamo già assistendo a un aumento dei costi del carburante, del cibo e delle spese di spedizione, e proprio quando pensavamo di aver già assistito alle crisi peggiori abbiamo dovuto fronteggiare la crisi afghana, che è ancora in corso, e la guerra in Ucraina».
Prima della guerra il Wfp provvedeva al supporto alimentare per 125 milioni di persone in tutto il mondo ma ora – a causa dell’aumento dei costi di cibo, carburante e spedizioni – ha iniziato a tagliare le razioni. Un esempio su tutti è lo Yemen, dove a otto milioni di persone è già stato tagliato il contributo alimentare del 50%. Quindi, quando afferma che le cose andassero male anche prima, Beasley intende dire che manchino i soldi per sfamare dai quattro ai cinque milioni di persone che dipendono dal Programma Alimentare Mondiale per la sussistenza alimentare.
Già alla fine di marzo, le Nazioni Unite avevano avvertito che gli agricoltori ucraini non sarebbero stati in grado di raccogliere il grano, dedicarsi alla stagione della semina e sostenere il bestiame in 19 province su 24, cioè quelle coinvolte dai combattimenti, per questo David Beasley dall’Ucraina ha chiesto al mondo di prevenire il disastro futuro e ha ricordato gli effetti delle crisi alimentari dei conflitti su vasta scala: «Se cooperiamo per mettere fine al conflitto possiamo evitare la carestia, la destabilizzazione delle nazioni e la migrazione di massa, ma se non lo facciamo il mondo pagherà un prezzo enorme. L’ultima cosa che vogliamo fare come Programma Alimentare Mondiale è prendere il cibo dai bambini affamati per darlo ai bambini che muoiono di fame».
Beasley guarda soprattutto all’Africa e al Medio Oriente, a Paesi come il Libano, la Tunisia, il Marocco che dipendono fortemente dalle importazioni ucraine per nutrire la popolazione e guarda al passato recente.
In molti Paesi dipendenti dalle importazioni di grano ucraine, infatti, i sussidi per il pane sono considerati parte del contratto sociale e l’aumento dei prezzi potrebbe innescare disordini, accadde esattamente questo quando aumentò il prezzo del pane nel 2010 in conseguenza degli scarsi raccolti di grano russo di quell’anno. Le difficoltà economiche animarono le rivolte tunisine, libiche, egiziane, siriane che si trasformarono nelle primavere arabe.
L’Egitto è forse il Paese nordafricano che desta la maggiore preoccupazione negli analisti, perché è il più grande importatore di grano al mondo, 16 milioni di tonnellate all’anno, e dunque quello che sta già accusando il peso maggiore dell’aumento dei prezzi causato dalla guerra.
Lo scorso anno Russia e Ucraina hanno fornito rispettivamente quasi il 50% e il 30% delle importazioni di grano del Paese, per un valore di 3,2 miliardi di dollari. Una settimana dopo l’inizio della guerra il prezzo del grano in Egitto era già aumentato del 50%, raggiungendo il livello più alto in quattordici anni.
Anche in Egitto i sussidi sul pane sono la base del contratto sociale, il governo sovvenziona la spesa sui generi di prima necessità da decenni, un valore di quasi 3 miliardi di dollari l’anno che sostengono 70 milioni di persone.
Lo scorso anno il presidente Abdel Fattah el-Sisi aveva annunciato di voler ridurre i sussidi, un tassello nel piano di riforme economiche che il governo sta attuando dal 2016 per ottenere un bonus da 12 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale.
Dopo lo scoppio della guerra, due carichi diretti in Egitto sono rimasti bloccati in Ucraina e l’Autorità generale egiziana per le materie prime ha dovuto annullare due gare per gli acquisti di grano che hanno visto prezzi elevati e poche offerte. Le interruzioni legate alla guerra rappresentano una sfida complessa per il governo che deve cercare nuovi fornitori mentre cerca di assorbire il colpo dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari, ciononostante, il piano di riforme di el-Sisi è stato confermato poche settimane fa dal ministro dell’approvvigionamento, Ali el-Moselhy, che ha ribadito che i sussidi a grano, farina e pane saranno gradualmente revocati per la maggior parte dei cittadini, ad eccezione degli estremamente vulnerabili che, in Egitto, sono 25 milioni di persone: cioè un quarto della popolazione.
Per far fronte all’emergenza el-Sisi ha imposto un tetto al prezzo del pane non sovvenzionato, nel tentativo di limitare le difficoltà per le famiglie, ma è possibile come segnala l’ultimo rapporto dell’International Crisis Group The Impact of Russia’s Invasion of Ukraine in the Middle East and North Africa (L’impatto dell’invasione russa dell’Ucraina in Medio Oriente e Nord Africa) che «l’aumento dei prezzi all’importazione e le minori entrate turistiche rappresenteranno un peggioramento delle condizioni di vita che potrebbe spingere le persone a rivolte spontanee».
Un altro Paese vulnerabile all’aumento dei prezzi è il Libano che importa oltre l’80% del grano di cui ha bisogno dall’Ucraina. Il Libano ha perso quasi tutta la sua capacità di stoccaggio di grano nell’esplosione al porto di Beirut del 4 agosto 2020 che ha distrutto i principali silos del Paese e la situazione è talmente drammatica che il giorno dopo l’invasione, il 25 febbraio, il ministro dell’Economia libanese ha annunciato che il Paese avesse riserve di grano per due mesi al massimo. In pochi giorni nel Paese si sono riviste le stesse scene della scorsa estate. L’inflazione alle stelle, la mancanza di carburante e dunque di elettricità avevano fatto sì che la Banca Mondiale definisse la crisi finanziaria libanese la peggiore dalla metà del XIX secolo.
Code di ore davanti alle stazioni di servizio, scaffali dei supermercati e delle panetterie pieni di cibo che le persone non potevano più permettersi perché la valuta libanese in due anni aveva perso l’85% del suo valore. Dal 2020, i prezzi dei generi alimentari in tutto il Paese erano già aumentati fino al 570%, spingendo molte famiglie a cambiare le proprie abitudini alimentari per far fronte all’aumento dei costi.
In poco tempo, stimano gli analisti, il Libano potrebbe andare incontro a un periodo di gravissima insicurezza alimentare legata all’importazione dei beni di prima necessità.
Anche in Libano, come in Nord Africa, il grano è un bene sussidiato che pesa sui conti dello Stato per 20 milioni di dollari al mese. Maya Terro, a capo dell’organizzazione Food Bless Libano che si occupa delle famiglie che vivono sotto la soglia di povertà a Beirut, ha detto che la «maggior parte della popolazione libanese da ormai due anni vive in modalità di sopravvivenza. Dopo l’esplosione del porto tantissime famiglie avevano già venduto quello che potevano per tirare avanti e comprare cibo e oggi le ripercussioni della guerra e gli aumenti catastrofici dei prezzi del cibo stanno trascinando la popolazione in uno stato di indigenza generale».
La situazione potrebbe peggiorare su molti fronti, avverte l’International Crisis Group, anche perché «un progetto del Programma alimentare mondiale per la fornitura di diesel agli ospedali pubblici, ai centri sanitari e alle stazioni di pompaggio dell’acqua è scaduto alla fine di marzo, perché i donatori internazionali non vogliono più finanziarlo, adducendo preoccupazione per la dipendenza permanente e la mancanza di sforzi convincenti da parte libanese per affrontare la situazione».
Anche la situazione in Tunisia, Paese in cui dieci anni fa erano partite le primavere arabe, preoccupa molto gli analisti. Il presidente Kais Saied ha inviato una delegazione al Fondo Monetario Internazionale per fare fronte ai buchi di bilancio creati dalla pandemia e ulteriormente esacerbati dall’aumento dei prezzi del cibo e del petrolio degli ultimi mesi.
La Tunisia sta affrontando sfide economiche e turbolenze politiche, il presidente Saied l’estate scorsa ha sciolto il Parlamento e ha già proposto riforme economiche che il potente sindacato tunisino Ugtt ha definito preludio di futuri scioperi e proteste.
I tunisini hanno fatto scorta di cibo in previsione della fine del periodo del Ramadan, quando il consumo di cibo aumenterà, ma a prezzi che molte famiglie non possono più sostenere. L’aumento del prezzo del grano (con la Tunisia che dipende da Russia e Ucraina per circa il 60% della sua fornitura), l’esaurimento delle scorte di semola (ingrediente principale del couscous), e l’aumento dell’energia stanno aumentando molto la frustrazione tra i tunisini che devono in più prepararsi a un calo del turismo durante l’estate, così mentre la guerra fa aumentare il costo del cibo, del carburante e dei fertilizzanti importati dalla Tunisia, il governo di Saied si trova di fronte a un dilemma. I prezzi del grano si sono stabilizzati di circa il 30% al di sopra dei livelli che avevano a febbraio, i prezzi dei fertilizzanti russi hanno iniziato ad aumentare alla fine dell’anno scorso e ora sono più del triplo della media di un anno fa, e i prezzi del petrolio superano i 100 dollari al barile e sono ben al di sopra della cifra di 75 dollari che il budget tunisino ipotizzava di dover spendere quest’anno: questo significa che i costi più elevati potrebbero aggiungere più di 1,5 miliardi di dollari di sussidi per la Tunisia e quindi che il Paese avrà bisogno di un aiuto finanziario esterno, ma la Tunisia non è in grado di raccogliere fondi sui mercati finanziari globali. In più, il debito statale del Cereal Board verso gli esportatori ucraini è di circa 300 milioni di dollari. L’Ucraina ha chiesto un pagamento anticipato in contanti del 50% degli arretrati totali degli ultimi sei mesi.
Nel medio periodo è facile immaginare che la crisi economica e l’aumento dei prezzi rendano i tunisini, già danneggiati dalla pandemia, dal crollo del turismo e da una vita politica sempre più polarizzata tra i sostenitori di Saied e i suoi oppositori, più inclini a movimenti di rivolta, che potrebbero riportare il Paese, e a caduta tutta la regione, a rivivere la stessa stagione di proteste e flussi migratori di dieci anni fa. —