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 2022  aprile 23 Sabato calendario

Perché ini Italia con la cultura non si mangia


Con la cultura non si mangia? All’auspicio avanzato dal ministro per i Beni Culturali nel suo ultimo libro va purtroppo risposto che no, con la cultura non si mangia e chi coniò quella troppo derisa asserzione non deve rinnegarla. È una oggettiva realtà di fatto resa lampante dalla successione dei tragici avvenimenti della pandemia e delle conseguenze della guerra. Una realtà che ha lasciato completamente senza risorse città adagiate esclusivamente sull’indotto del consumo culturale inteso come redditività del turismo e dei servizi connessi all’uso del patrimonio artistico. Ma si trattava comunque di un’economia modesta, spesso di puro sostentamento e di sfruttamento e comunque senza risorse rilevanti che fossero introiti d’impresa e non compensazioni pubbliche.
Quindi dobbiamo chiederci quale economia avanzata, quale città capitale potrebbe augurarsi di vivere di turismo, che poi è quello che si intende per redditività della cultura e, per sillogismo, che con la cultura si mangia? E quale politica culturale è quella rivolta esclusivamente ad incrementare i flussi limitando a questo la competitività internazionale, non su quello che si deve intendere per cultura produttiva di vitalità? Che a sua volta deve distinguersi dall’intrattenimento? Il Colosseo è divenuto suo malgrado il simbolo di un bene trasformatosi in parco-giochi cui procurare sempre più piattaforme di intrattenimento, digitali o concrete, con il tripudio dei sindaci che sperano di risollevare i destini della città tornando al comodo status quo ante.
Allora una proposta: ai rovesci economici causati dalla pandemia e poi dalla guerra è divenuta ora sovrastante, per la sua centralità strutturale, la crisi delle fonti energetiche. La cogente questione degli impianti per le energie rinnovabili sta contrapponendo ruvidamente due ministeri e ritardando gli investimenti attesi dal piano di ripresa, i suoi criteri, i suoi obiettivi.
Tutti questi eventi imprevisti hanno dunque improvvisamente portato un secolare, irrisolto, problema italiano a un culmine di tragico attrito: l’antagonismo tra conservazione e azione, che colloca su versanti opposti eredità culturale e sviluppo industriale ed economico. Ma oggi – proprio ora! – per la gravità della situazione, l’atavico persistere di questa vecchia reticenza è giunto a un drammatico punto di rottura, oltre il quale non può più trascinarsi. Per giustificate che possano ritenersi le ragioni della separazione – eminentemente italiana – tra le ragioni delle scienze umane e quelle delle tecnologie, è tempo di raggiungere quella composizione che esiste da decenni nei più progrediti Paesi europei ed esteri. Non è più neppure il momento di lamentare la gravità del ritardo culturale che contrappone le esigenze della tutela a quelle dello sviluppo e del progresso.
Inutile dilungarsi nella ricerca delle cause storiche e culturali dell’ignoranza e inadeguatezza al presente di questa dicotomia. Ora è tempo che con la stessa prontezza con cui i settori competenti si sono messi a ricercare alternative alla produzione di energia (e anche qui si potrebbe davvero far meglio perché non esistono solo pannelli e pale eoliche) la cultura della tutela del patrimonio culturale e ambientale si impegni nella ricerca interdisciplinare delle compatibilità rispetto alle peculiarità italiane. Il nostro talento, la fatica, l’immaginazione da cui il ministro auspica che scaturisca la ripartenza, di certo ce la possono fare. Altrimenti si compromettono interessi e ragioni della stessa tutela, causati non da pressioni esterne ma da endogena inadeguatezza alla realtà. Consapevoli anche che non averlo fatto finora resterà uno stigma.
Si sente invece parlare di argini, di difese dei propri valori rispetto all’evidenza del problema da parte di un ministero preposto alla tutela che si trincera a difesa dell’articolo 9 della Costituzione come se esso fosse una competenza di settore, da agitare quale bandiera di resistenza e non riguardasse invece l’interezza degli interessi del Paese. E come se il primo punto di quell’iper citato articolo non impegnasse la Repubblica a «promuovere lo sviluppo e la ricerca scientifica e tecnica» oltre che, al secondo punto, imporre la «tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della Nazione». Ecco: proprio in un’accezione della conservazione come reazione alla ricerca e perciò al progresso sta l’elemento tragicamente assente; nell’adozione dell’articolo 9 senza la capacità di garantire il conseguente «sviluppo della cultura».
La preveggenza, ma forse solo il dovere, avrebbe da tempo dovuto promuovere una ricerca congiunta intersettoriale per individuare modelli di energia e relative tecnologie produttive alternative agli insediamenti più distruttivi. Fu uno dei moventi, tra i meno compresi, del distacco del settore dei beni culturali dal ministero della Pubblica Istruzione e della sua istituzionalizzazione, nel 1974, in un ministero specifico, tecnico, almeno nelle intenzioni dei fondatori. Gli esiti pratici della conservazione come progresso, conseguenti agli effetti della ricerca, avrebbero dovuto costituire un esito anche di mercato, quindi una concreta – questa sì – redditività culturale.
Si è preferita invece la contrapposizione, con le armi convenzionali dell’applicazione burocratica, esercitando una tutela priva di conoscenze intrinseche della completezza e complessità dei campi in cui va a intervenire e incidere, alle loro ragioni, alle loro problematiche.
Risultato: un derby di vincoli contro pale eoliche. Ora il ministero si chiama della Cultura. Questo ulteriore cambio di nome è impegnativo e gravido di implicazioni e conseguenze. Non importa quale e quanta ne sia la consapevolezza in tutte le sue ramificazioni operative, né quanto – e se – la struttura ministeriale si stia impegnando a comprenderle. L’urgenza tragica dei fatti attuali impone il rinnovamento radicale della prospettiva, senza inibizioni, per la complessità del processo di presa di coscienza. Intanto, per accedere a una evoluzione della cultura – che in tempi di normalità forse non avrebbe impegnato concretamente il Paese – basterà non solo obbligarsi ad un confronto e ricerca interdisciplinare (e l’antagonismo tra scienze umane e tecnologiche lo si lasci pure ai sussidiari di un tempo passato); ma soprattutto informarsi di come il problema energetico e la sua sostenibilità sia affrontato in altri Stati del mondo a cominciare dalla vicina Spagna, applicando acume critico, ovviamente, ma anche prescindendo da pregiudizi convenzionali. Anche perché le circostanze attuali non consentono tempi supplementari.
Solo così la cultura potrebbe contribuire a far mangiare. Anzi, per riprendere il celebre aforisma del ministro Franceschini, solo così, nel suo divenire forza capace di risolvere le esigenze della realtà attuale, potrebbe considerarsi un dicastero dalla considerevole valenza economica. Ma se con la cultura non si mangia, intanto c’è chi si attrezza: 25 ristoranti a Bologna promuovono un itinerario gastronomico ispirato ai quadri.