Il Messaggero, 22 aprile 2022
Intervista a Gianni Berengo Gardin
«La macchina fotografica era una Ica Halloh e apparteneva a mia madre. Poco più che bambino, realizzai a Roma i miei primi dieci rullini». Gianni Berengo Gardin, protagonista della fotografia internazionale, è chinato sulla propria scrivania nell’archivio a Milano ed è intento a scegliere tra i provini di un vecchio reportage inglese, quando comincia a raccontare in esclusiva e anteprima il suo grande viaggio e la retrospettiva L’occhio come mestiere, curata da Margherita Guccione e Alessandra Mauro, realizzata dal Maxxi, presieduto da Giovanni Melandri, in collaborazione con Contrasto. La mostra, che sarà inaugurata il 4 maggio al Maxxi ed è accompagnata da un libro della casa editrice, esporrà duecento fotografie tra le più celebri e altre inedite. Il percorso parte da Venezia, riprende i reportage più importanti di Gardin nelle fabbriche e nei manicomi.
Nell’infanzia romana la città sopravviveva all’occupazione nazista. Lei che cosa faceva?
«Le autorità tedesche emisero l’ordine di consegnare anche le macchine fotografiche. Per protesta dissi: Ora vado in giro per Roma e scatto delle foto. Quel divieto mi fece percepire il potere di questo strumento con l’importanza di documentare».
Altri ricordi?
«Non è stato semplice per noi indottrinati a scuola scrollarsi l’educazione fascista. È impossibile dimenticare i bombardamenti a San Lorenzo».
Perché la mostra si muove da Venezia?
«Nel 1947 ci trasferimmo in laguna. Lì ho iniziato a fotografare. Il suo mistero tuttora mi affascina. È una città piena di contraddizioni».
Lei ha avuto fortuna?
«Le fotografie delle persone, che mi piacevano, sono sempre molto dipese dalla fortuna e contano le scelte quanto la prospettiva individuale dello scatto. Nelle difficoltà non ho mai rinunciato al reportage, rifiutando la moda. Nella vita ho fatto ciò che m’interessava anche quando mi pagavano poco».
All’Olivetti arrivò dopo la morte di Adriano. La fabbrica l’ha cambiata?
«L’Olivetti è stata una scuola eccezionale per quindici anni. Si respirava ancora l’atmosfera di Adriano. C’era un rapporto di fiducia, mi muovevo da solo ed ero libero di fotografare a differenza della Fiat. Ero affascinato dalla forza e dalla resistenza degli operai. Sono diventato comunista, perché ho lavorato nelle industrie».
Franco Basaglia forse è riuscito a compiere l’unica vera rivoluzione in Italia. Eravate amici?
«Forse è il lavoro al quale sono più legato. Non ho mai fotografato la malattia, ma le condizioni di vita nei manicomi. Basaglia è stato il mio lasciapassare. I malati come alcuni infermieri, che ci aiutarono, volevano che il mondo sapesse. Mostrai le foto a Basaglia che fu talmente entusiasta da realizzare il libro Morire di classe. Lì è nata l’amicizia».
Qual è la distanza tra una fotografia bella e una buona?
«Enorme. Una fotografia può essere tecnicamente perfetta, ma non ti racconta niente. Buona può anche non essere tecnicamente a posto, ma ti racconta, ti dà una sensazione, un’impressione».
Perché non ha mai tradito il bianco e nero?
«Sono cresciuto con questa cultura visuale. Il colore distrae sempre molto, mentre il bianco e nero è più adatto al mio genere di fotografia».
Sulla parete conserva il quadro con una dedica di Cartier Bresson.
«Mi scrisse: Con ammirazione. Il giorno dopo sarei potuto morire tranquillo. La più grande medaglia d’oro, sincera, che ti possano dare sul campo».
Come si coltiva l’amicizia tra grandi fotografi?
«Uniscono le idee e le tensioni. Gabriele Basilico era il mio amico più importante come lo è Ferdinando Scianna».
Si è mai sentito arrivato?
«No. Ho vissuto sessant’anni di camera oscura. Lavoravo con le mani le fotografie, gli acidi. Vedere una foto che compare su una bacinella è una soddisfazione incommensurabile. È un mestiere artigianale».
Lei è un artigiano. Né poeta né artista?
«Ascolto con piacere un critico definire una buona fotografia come un’opera d’arte. Per me le fotografie sono documenti il cui valore resiste al tempo, testimoniando la vita».
Qual è il rapporto tra tecnica e sguardo nelle nuove generazioni?
«La tecnica ormai si apprende abbastanza agevolmente, ma non si pensa più alla cultura fotografica. Ancora oggi imparo delle cose attraverso le fotografie degli altri. Non copiando, ma ispirandosi».
A novantuno anni ha paura della morte?
«No. Ho dovuto smettere di fumare la pipa. Mi scoccia proprio abbandonare le mie collezioni, i libri e soprattutto le macchine».
La Leica è stata la sua macchina?
«Da ragazzo era un sogno che ho realizzato comprandola a rate».
La possiede ancora?
«Funziona dal 1954 senza averla mai fatta revisionare. Si sono allentati leggermente i tempi, ma non si nota. Amo la pellicola, perché la fotografia è pellicola».