il Giornale, 22 aprile 2022
Diario di una nazione ridicola
Niente di più fastidioso delle epopee degli scrittori «dimenticati», «irregolari» e «misconosciuti». Queste etichette, spesso applicate ad autori come Antonio Delfini, nascondono pigrizia e ipocrisia. Dimenticati? Non dai lettori: pochi o tanti che siano, essi non restano mai indifferenti di fronte a capolavori come I racconti di Delfini (Garzanti), appena ripubblicati, dopo decenni di colpevole assenza. Irregolari? Si può sapere rispetto a quali fantomatiche regole? I grandi artisti di solito non seguono le regole. Misconosciuti? Solo da chi si accontenta dell’ovvio. A Delfini non è toccata la classifica dei bestseller ma ha avuto la stima di lettori come Carlo Bo, Eugenio Montale, Pier Paolo Pasolini, Giorgio Bassani, Cesare Garboli, Natalia Ginzburg, Gianni Celati e Giorgio Agamben, tanto per dirne qualcuno.
Il modenese Delfini (1907-1963) era un galantuomo che non sapeva difendersi, era troppo fragile anche solo per pensare di imporsi. Rimase dunque tagliato fuori dai giochi, salvato in extremis da amici come Giorgio Bassani, che impose la pubblicazione delle magnifiche Poesie della fine del mondo (Feltrinelli), o Vanni Scheiwiller, che si fece carico di racconti satirici del calibro di Misa Bovetti e altre cronache, o Ugo Guandalini, amico di sempre, che volle le Lettere d’amore per Guanda. Delfini sapeva di non essere nato per il successo: «Io non sono certamente un uomo che possa far carriera. Letico coi conservatori (moderati furbi intriganti democratici socialisti non conservatori) per difendere le mie idee di comunista. Letico coi comunisti per difendere le mie idee (in questo caso sarebbe meglio dire: le mie emozioni, i miei ricordi, i miei affetti) di conservatore». Già, Delfini, un ossimoro vivente, aveva scritto un Manifesto per un partito conservatore e comunista in Italia (Guanda, 1951)...
Ora ritornano i Diari, usciti per la prima volta postumi presso Einaudi nel 1982, in una veste finalmente rispettosa delle volontà dell’autore (resta però il dubbio del titolo, che dovrebbe essere Giornali, alla francese). I precedenti curatori, Cesare Garboli e Natalia Ginzburg, non si erano fatti problemi a ordinare le carte a proprio piacimento, tagliando gran parte delle poesie, ora ripristinate. Grande merito va quindi alla nuova curatrice Irene Babboni, delfiniana di ferro, che purtroppo non ha potuto vedere il frutto del suo lavoro, appena uscito per Einaudi. L’editore torinese, tra l’altro, torna sui suoi passi dopo aver pensato di cedere i Diari, già nel suo catalogo, all’editore Aragno.
Delfini sperimentò il racconto in tutte le sue possibilità, dall’autobiografia alla satira, e fu inoltre uno splendido poeta, che scrivesse in versi o in prosa. Pur essendo principalmente narratore e rifiutando la formula dell’impegno dogmatico, Delfini ha saputo dare una lettura fuori dagli schemi degli anni tragici del nostro Paese: il Ventennio, il conflitto mondiale, la guerra civile, la contraddittoria ricostruzione. Molte riflessioni e racconti e versi dedicati a questi temi furono consegnati alle pagine destinate a diventare, probabilmente, un’opera per la pubblicazione (i Diari, appunto). Altre andarono a formare l’Introduzione ai Racconti, pagine impietose sul mondo dei letterati e degli imboscati, degli ex amici Mario Pannunzio ed Eugenio Scalfari, ma anche dei mitici intellettuali delle Giubbe Rosse, tutta gente che aspettava la caduta del regime, rigorosamente in silenzio, per impadronirsi poi del potere. Opportunisti, cosa che Delfini non fu mai.
Si esce comunque sorpresi dalla lettura dei Diari, che coprono l’arco di tempo tra il 1927 e il 1961. L’apparente disordine compone un appassionante «trattato morale» sull’Italia (così Gianni Celati in Autore ignoto presenta, e anche Celati ha squartato editorialmente Delfini a suo piacimento, deve essere una moda). Se andiamo ai Diari, troviamo appunti come quello del 15 marzo 1937: «C’è troppa affinità letteraria tra intellettuali fascisti e intellettuali avversari, perché si possa credere nella nascita di qualcosa di grande da quelli». Gli scrittori di regime sono cortigiani ma non sono molto differenti da «quelli che sono, o stanno, fuori del fascismo, indifferenti ma... illuminatissimi; oscuri ermetici, ma chiari probanti coscienziosi nel loro... mestiere di letterato». Nessuno sconto: «Sono questi che mangiano sul cadavere della Patria. Il Regime fascista mangiò fino a far morire la Patria. Costoro – gli antifascisti – si nutrono di quanto ha ripugnato agli stessi saziati fascisti» (Diari, 18 dicembre 1944).
Se i Diari sono, come qualcuno ritiene, il capolavoro di Delfini, il Giornale politico, in chiusura dell’anno 1944, è il capolavoro nel capolavoro oltre che un’opera quasi a sé stante. Lo scrittore ripercorre le tappe del suo viaggio all’interno del Fascismo. «Da giovane (molto, molto giovane) io entrai nei fascisti. Ancora giovane mi disgustai dei fascisti. Io ho odiato me stesso, ancora odio me stesso». Dal regime ebbe nulla: «Non guadagnai, non lavorai, quasi non vissi». Presto provò il desiderio di cambiare aria e frequentare la fronda: «Io li trovavo i non fascisti e gli antifascisti. Soltanto che appena trovati mi sfuggivano: diventavano fascisti, ottenevano prebende, uffici, commissioni e talvolta cariche politiche. E anche se non diventavano fascisti circolavano però nelle alte sfere del fascismo, guadagnavano ugualmente fama e denaro».
Seguono poche righe in cui c’è la storia d’Italia: «Dopo il 25 luglio venni a sapere, con mia meraviglia, che tutti quegli Antifascisti (ma fascisti o fascistizzati) avevano lavorato loro, soltanto loro, per far cadere il fascismo. Io temo di intuire che essi si erano organizzati per l’eventuale caduta del fascismo; e non per far cadere il fascismo. Siamo giusti. Il fascismo l’hanno fatto cadere gli Inglesi (filo-fascisti fino al 1935), gli Americani, i Russi e i Fascisti meno stupidi e meno delinquenti; mentre il Re ha saputo dare con molta eleganza e con fascistica-antifascistica furberia, lo sgambetto finale a Mussolini».
Conclusione sarcastica: «Quanto alla massa degli Antifascisti – via, siamo franchi: apriamo il nostro cuore! – la loro innocenza per la caduta del fascismo è quasi completa». Di fronte a certe carriere c’è da restare basiti dallo stupore. C’era una volta un professore fascista pronto a denunciare Delfini come antifascista. C’è ancora, ma divenuto crociano è pronto a denunciare Delfini come fascista di antica data. Morale: al mondo ci sono «due categorie di uomini: quelli che parlano e quelli ai quali si tappa la bocca. Eravamo l’uno di fronte all’altro. Due attori: due ruoli diversi, ma sempre gli stessi per ciascuno nella recitazione di commedie comuni dove ora trionfa un’idea e ora ne trionfa un’altra a edificazione dei pubblici istituti e della gente di carriera. Mi pareva che la mia parte fosse ormai segnata per sempre: Tacere».
La polemica arriva fino al riassetto delle istituzioni e della Costituzione, nei Diari del 1948: «Con la vecchia democrazia ottocentesca, e col suo meccanismo, sorse il partito fascista: il quale, di per sé, si presentò come un partito democratico e liberale, ansioso soprattutto di realtà e verità. Il partito fu dai suoi stessi aderenti (specie dagli aderenti nuovi, ex nemici) travolto nella dittatura, nella quale, senza farci caso, corresse, rinnovò, complicò il vecchio meccanismo dello stato democratico senza però inventare nulla, senza mutare la macchina». Il vecchio meccanismo, pur se rovinato e complicato, fu chiamato totalitarismo. Dopo la caduta del fascismo, gli italiani non hanno levato le cianfrusaglie totalitarie e rimesso in sesto transitoriamente il vecchio meccanismo per poi procedere con calma alla costruzione di un ingranaggio nuovo di zecca. No. Gli italiani «si sono buttati a togliere dall’interno i vecchi pezzi (Re, Statuto, garanzie umanitarie ottocentesche) e si sono messi a ripulire e raddrizzare le sventole del totalitarismo». L’Italia ha fatto il suo trionfale ingresso nel regno della democrazia e della libertà... a bordo di una macchina totalitaria.
La disillusione diventerà completa. Il 27 agosto 1960 scrive nei Diari di rinunciare, a causa dei problemi famigliari ormai insopportabili, a scrivere il progettato romanzo definitivo sul dopoguerra, provvisoriamente intitolato Storia risoluta: «Doveva diventare la più grossa condanna del nostro tempo e di quello che l’ha generato, la più grossa condanna perciò dell’antifascismo e dei partiti borghesi antifascisti e del loro padre ambosesso, del loro unico genitore: il fascismo».