La Stampa, 22 aprile 2022
I medici non vogliono più lavorare
Durante l’annus horribilis 2020, quando il Covid falcidiava vite anche tra di loro, i camici bianchi hanno serrato le fila, facendo muro contro la pandemia. Ma poi la stanchezza, unita a prospettive di carriera sempre più ridotte e turni di lavoro stressanti, ha preso il sopravvento, generando la grande fuga dei medici dalla nostra sanità pubblica. In tre anni, dal 2019 al 2021, quasi 21 mila camici bianchi hanno gettato la spugna lasciando gli ospedali sempre più sguarniti. Lo studio realizzato dal più forte sindacato degli ospedalieri, l’Anaao Assomed, ha contato 12.645 pensionamenti, alcuni anticipati. Ma a fare più colpo sono gli 8 mila che si sono licenziati, preferendo andare all’estero o nel privato. Sono scesi nel 2020, quando c’era da battagliare contro il Covid ancora a mani nude, ma sono poi risaliti del 39%, a quota 2.886, l’anno successivo. Con fughe più accentuate in Calabria, Sicilia, Lombardia, Liguria e Puglia. Anche se poi c’è chi farebbe marcia indietro. Come Matteo Morotti, ginecologo e oncologo che appena specializzato è migrato dal San Martino di Genova verso Oxford e poi la Svizzera. «Ma oggi nonostante tutti i problemi tornerei in Italia, dove bene o male il paziente resta al centro del sistema mentre altrove il valore economico prevale spesso su quello umano».
All’estero stipendi più alti
Resta però che la nostra sanità rischia di collassare, «visto che di fronte all’uscita di circa 7.000 medici specialisti ogni anno, l’attuale capacità formativa è intorno a 6.000 neo specialisti, di cui in base a nostri precedenti studi solo il 65% accetterebbe un contratto di lavoro con il pubblico», denuncia Carlo Palermo, segretario nazionale dell’Anaao. Del resto, un’altra indagine condotta dall’Istituto Piepoli per l’Ordine nazionale dei medici conferma che un terzo dei camici bianchi italiani, se potesse, in pensione ci andrebbe subito. E il brutto è che a dirlo sono proprio i più giovani, perché tra chi appenderebbe al chiodo il camice il 25% ha tra 25 e 34 anni e il 31% tra 35 e 44 anni. «A Napoli in questi giorni sono arrivate 17 cancellazioni dall’Ordine. È la prima volta, significa che si sta perdendo il valore morale di questa professione», denuncia Silvestro Scotti, segretario nazionale della Fimmg, il sindacato dei medici di famiglia. Tutto questo malessere si spiega solo in parte con le buste paga oramai del 50% inferiori a quelle dei colleghi dell’Europa occidentale, come denuncia l’Anaao.
Scarse prospettive di carriera
A metterci del suo c’è anche la carenza di personale, che impone ritmi massacranti che hanno generato in oltre 15 mila camici bianchi la sindrome da burnout, quella forma di esaurimento che il presidente dell’Ordine, Filippo Anelli, chiede di riconoscere come malattia. Ma a pesare è anche la scarsa prospettiva di carriera, visto che a furia di tagli in corsia i direttori di struttura complessa, gli ex primari, in tre anni si sono ridotti da 9.691 a 6.629. «Per il personale medici avremo difficoltà per i prossimi 2-3 anni», ammette il ministro Speranza. «Ma poi la situazione migliorerà grazie alle risorse messe in campo per finanziare 17 mila borse di studio di specializzazione medica», assicura. Mentre si appresta a varare, anche senza il via libera delle Regioni, il decreto che rivoluzionerà la medicina del territorio, imponendo ai medici di famiglia di passare dal comodo orario medio settimanale di 15 ore a quello di 38, che i loro colleghi ospedalieri superano abbondantemente