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 2022  aprile 22 Venerdì calendario

La donna che cerca i partigiani sovietici morti per liberare l’Italia

«Io non cerco eroi, questa parola non mi è mai piaciuta, io ricerco la storia». A dirlo è Anna Roberti, una ricercatrice torinese laureata in lingua e letteratura russa che, nonostante lo scoppio della guerra in Ucraina, non ha mai smesso di fare da ponte tra due mondi così lontani, ma così vicini. Per tutta la vita ha fatto l’interprete, la traduttrice, l’insegnante e anche la guida turistica, collegando l’Europa con la Russia e gli altri Paesi dell’ex Urss. E oggi, anche se ha già raggiunto, come dice lei stessa, l’età pensionabile, non intende fermarsi, anzi: il suo lavoro sta diventando ancora più prezioso. La sua è una missione, senza colori politici, che dura da quasi vent’anni e continua anche sotto le bombe. L’obiettivo? Ridare un nome ai tanti soldati sovietici caduti in Italia mente combattevano con i partigiani locali.
Tutto inizia nel 2003 quando la donna, su consiglio di suo padre, conosce Ivan Subkov, un ex partigiano ucraino che nel ’44 aveva combattuto in Piemonte assieme ai ribelli. Con lui scopre che, a partecipare alla lotta al nazifascismo nella Penisola, non furono solo italiani, ma anche diversi stranieri. Tra di loro circa 5.000 sovietici: uomini dell’Armata Rossa fatti prigionieri dai tedeschi in Russia, e in molti casi costretti ad arruolarsi nella Wehrmacht per poi, una volta arrivati in Italia, scappare e unirsi ai partigiani. Ma che cosa era successo a chi di loro era morto sul campo? I loro visi e i loro nomi, spesso storpiati da una traduzione frettolosa, si erano persi nelle fessure del tempo, e i familiari a casa non avevano più saputo nulla. Di loro non rimanevano altro che ossa, sepolte chissà dove.
Ed è così che da un semplice incontro Anna Roberti inizia la sua missione: ridare un nome, trovare un’immagine, rintracciare una tomba e riconsegnare la Storia ai parenti di 5-600 partigiani sovietici morti nella nostra guerra di liberazione. Da sola, aiutata anche dal lavoro di Nicola Grosa, un ex partigiano piemontese che nel dopoguerra riesumò a mani nude oltre 900 corpi di ribelli per dare loro degna sepoltura, è riuscita a restituire un’identità a centinaia di sovietici, molti dei quali riposano all’interno del cimitero monumentale di Torino.
Sul suo lavoro ha scritto anche un saggio, “Dal recupero dei corpi al recupero della memoria” (Edizioni Visual Grafika, 2014), e oggi sul web il suo nome è il primo punto di riferimento per tanti russi, ucraini, kazaki e georgiani che ricercano le sorti dei loro antenati scomparsi. Ogni volta che arriva un nome da verificare, Anna Roberti apre il pc e inizia la sua caccia. «La cosa che mi colpisce di più è quando riesco a trovare una foto della persona che sto cercando – spiega –. Dopo essermi immersa nelle loro vite, questo momento mi emoziona molto, perché riesco a guardarli finalmente negli occhi». Ma l’emozione più grande è quando riesce a rintracciare un familiare e prova a contattarlo, anche se spesso a cercarla sono loro. «In tanti – continua Roberti – mi scrivono per sapere che fine ha fatto un loro caro, e molti scelgono di venire in Italia».
Come Vachtang, un ragazzo georgiano che cercava suo nonno e l’ha contattata: insieme sono stati in Val di Susa, dove nel cortile di una scuola era stato eretto un monumento che ricordava i ribelli georgiani. «Quando siamo arrivati, l’istituto era chiuso, così ho convinto il ragazzo a scavalcare. Il nome di suo nonno era inciso su quella pietra, il giovane l’ha visto e poco dopo è corso ad abbracciarmi. Ecco: io quell’abbraccio me lo ricordo ancora, un cerchio era stato chiuso».
Sono questi incontri che tengono viva Anna Roberti e non la fanno mai desistere, neanche di fronte alle storie più complicate. Come quella di Chariton, di cui si sa ancora poco: un leggendario partigiano sovietico della brigata Stella Rossa, che operò nella zona di Monte Sole, nel Bolognese, nota per esser stata teatro di uno dei più violenti eccidi della storia nazista.
«Oggi però, con il conflitto in Ucraina, la situazione è davvero complicata – conclude – : non riesco più a collegarmi al gruppo di studiosi e ricercatori sparsi tra Ucraina e Russia che mi aiutano tanto nel mio lavoro. Ma forse è proprio in tempi come questi che bisogna continuare a parlare di certi temi, come i partigiani sovietici, perché siamo tutti ignoranti sulla cultura e la storia degli altri. Io ho sempre lavorato per il dialogo, e per far conoscere tutto ciò che c’era oltre la cortina di ferro. Mi sono imbattuta anche in nomi di spie, non solo di partigiani, ma era comunque giusto raccontare. Non siamo noi a decidere che cosa sia giusto o sbagliato tramandare a chi verrà dopo di noi».