Corriere della Sera, 22 aprile 2022
Intervista a Mattia Binotto
Nuvole basse e colline fradicie. Mattia Binotto osserva la pioggia dall’ultimo piano del motorhome, con il sorriso di chi è in testa al Mondiale. «Aria di casa, questa terra trasuda passione. Non so quante volte ci sono venuto per i test, la prima con Berger e Alesi. E dopo con Schumacher. Giocavamo a pallone là sotto, mettevamo dei coni come porte. Per Michael ancora prima di uno svago era un modo di fare squadra».
Quella era una Ferrari affamata, come questa?
«Vedo tanti parallelismi. Quella Ferrari non vinceva da tanto, aveva costruito le basi in un periodo lungo. Aveva assunto tanti giovani tecnici, fra i quali me. Anche noi abbiamo preso tanti ragazzi, aria fresca. Vedo fame, non soltanto la voglia di vincere singoli Gp o un titolo. Molto di più».
Che cosa allora?
«Riportare la Ferrari a essere un modello per la F1, per gli avversari. Rappresentare un modello, questo significa “Essere Ferrari”: alimentare il mito del Cavallino essendo un riferimento in ogni campo».
Obiettivi molto ambiziosi, è per questo che le vittorie in Bahrein e in Australia sono state festeggiate in maniera sobria?
«Singoli successi non possono costituire un traguardo. Sappiamo come in un attimo si può passare da una situazione a un’altra. Niente illusioni, dobbiamo crescere. Ma c’è una gran voglia di crescere».
Tre anni fa, appena nominato team principal, disse: «Vogliamo aprire un ciclo». È questo che intende?
«Sì, significa essere capaci di restare al vertice in modo duraturo. Poi, pensare di vincere sempre sarebbe presuntuoso. Ma bisognare essere sempre là davanti a battersi. È questo il nostro obiettivo».
Quindi se vincesse soltanto il Mondiale piloti (come la Red Bull l’anno scorso) non sarebbe contento?
«Non potremmo esserlo, il campionato costruttori rappresenta la solidità di una squadra. Per capirci: un titolo piloti sarebbe straordinario, ma penso che il nostro obiettivo vada oltre».
La sconfitta aiuta davvero o è solo retorica?
«Serve a fare passi indietro per andare avanti. Insegna a non disunirsi e a investire in tecnologie, uomini e “cultura”: individuare i punti deboli e correggerli. Lo abbiamo fatto negli ultimi 2-3 anni, è stato un percorso lungo».
Come ha fatto a recuperare la fiducia del gruppo?
«Per ottenere la fiducia bisogna darla. La cosa più importante è stata darla a ogni componente della squadra, alzando l’asticella nelle difficoltà».
C’è stato un momento in cui ha pensato di mollare tutto?
«Mai. Sono troppo testone. E sono anche consapevole di non essere l’unico responsabile dei successi o degli insuccessi. Siamo una squadra e mi sento uno dei tanti elementi. Abbiamo reagito tutti insieme, siamo sempre rimasti uniti. E questo mi ha dato la spinta».
Ma come faceva a vedere la luce dopo anni difficilissimi come il 2020?
«Sapevo di avere Maranello, avevamo le competenze per essere competitivi. Lo avevamo già dimostrato nel 2017 e 2018 e da allora siamo cresciuti. Ma sapevo anche che avremmo dovuto attraversare due stagioni di sacrifici prima di cogliere l’occasione di riscatto delle nuove regole».
Mercedes e Red Bull stanno pagando gli sforzi dell’ultimo campionato combattuto fino all’ultimo giro e voi ne avete approfittato?
«Non la vedo assolutamente così. Loro erano motivati, per noi era tutto in salita. Lavorare sul futuro quando prendi le sberle a ogni weekend non era semplice. Bisogna metterci la faccia e avere una dirigenza che accetti la situazione. Se gli avversari sono indietro le ragioni sono altre, non c’entra la “distrazione”».
Red Bull o Mercedes, chi teme di più?
«Red Bull, ha una capacità di sviluppo superiore».
A proposito di dirigenza, sente la fiducia del presidente John Elkann e dell’a.d. Benedetto Vigna?
«Sì, altrimenti non sarei qui a parlare con lei. Con loro ho rapporti di fiducia e trasparenza».
Dov’è la forza di Leclerc?
«Ha le spalle larghe, occupa tutta la pista. Se va in testa è dura superarlo: è un mago del corpo a corpo».
E quella di Sainz?
Elkann Sento la sua fiducia e dell’ad Vigna, altrimenti non sarei qui a parlarle
«Studia. È un pilota veloce al quale piace analizzare i dati. Sa adattarsi e crescere, ha bisogno di più tempo. Ma poi arriva anche lui».
Carlos però è indietro in classifica. È già tempo di gerarchie interne?
«No, entrambi hanno il diritto di potersi esprimere al meglio. In questa fase non c’è bisogno di ordini: senza l’errore a Melbourne, Carlos sarebbe secondo nel Mondiale. E se lui vince toglie punti a Verstappen, il vero rivale».
Quale è stato il momento in cui ha capito di avere una Ferrari in grado di vincere?
«Dai dati si intuiva. Dopo il primo giorno dei test a Barcellona ho avuto la conferma. A volte basta un solo “run”: se il pilota sorride capisci che la macchina è nata bene. Mi hanno insegnato così, ed è vero».
Quanto hanno contato il nuovo simulatore, le tecnologie aggiornate?
«Tanto. Ora abbiamo strumenti predittivi e capaci di individuare rapidamente un problema e la sua causa. Saranno fondamentali anche per gli sviluppi».
Leclerc in Australia ha dominato, alla Schumacher, lei c’era nella Ferrari di Michael. Ma è stato davvero così?
«A tratti mi è sembrato di rivivere quei bei momenti. Da tanto non vincevamo con un simile vantaggio di prestazione».
Che cosa si porta dietro di quegli anni lì?
«La volontà di migliorare sempre. Siamo solo all’inizio della strada. E il difficile deve ancora arrivare».
Pensiero fisso. Ma qualche volta riesce a staccare la testa, a rilassarsi?
«Isolandomi. In casa, in giardino. Passeggiando fra i boschi, andando in bici sull’Appennino. Ma non riesco veramente a staccare».
E un bel libro?
«Purtroppo leggo poco. Mi piacerebbe, ma dopo poche pagine tendo ad addormentarmi».
La guerra alle porte dell’Europa, come la vive?
«Con angoscia e tristezza. Immagini terribili, inaccettabili, a pochi km da casa. Non si capiscono le ragioni e nemmeno lo sviluppo di questo conflitto. Mi piace pensare che lo sport possa portare un sorriso, una distrazione, insegnare dei valori».
Se i suoi figli avessero voluto diventare ingegneri in F1?
«Marco studia design del prodotto e Chiara antropologia. Ho sempre sperato che prendessero una strada diversa dalla mia».
Lei crede in Dio, è religioso?
«Sì, quando riesco vado a Messa».
Le piace la serie di Netflix, «Drive to Survive»?
«Per chi la vive dall’interno è strana: sembriamo degli attori e invece siamo professionisti dello sport. Però mi rendo conto che ha un potenza enorme e che ha aiutato la F1 ad avvicinare i giovani».
Con queste vittorie Maurizio Crozza dovrà cambiare imitazione?
«Mi faceva ridere prima con il mio personaggio e quando lo rivedo continuo a ridere. Devo ringraziarlo: ci ha aiutato tanto a sdrammatizzare nei momenti più duri. E prima o poi mi piacerebbe incontrarlo di persona».
Qui a Imola per un altro trionfo. Magari pensa di prendersi anche la gara sprint di domani?
«La macchina ha dimostrato di potersi giocare la vittoria in tutte le gare. Arriviamo con l’ambizione di lottare per il gradino più alto del podio».
Se non fosse diventato team principal in F1, che cosa le sarebbe piaciuto fare?
«Il falegname».