Corriere della Sera, 22 aprile 2022
Intervista ad Adriano Giannini
È un viaggio di Alice in un paese tutt’altro che delle meraviglie. Bang Bang Baby di Michele Alhaique è il racconto di formazione di una adolescente in una famiglia criminale calabrese nella Milano degli anni 80. Dieci puntate prodotte da Lorenzo Mieli su Prime Video, le prime cinque dal 28 aprile, le altre disponibili dal 19 maggio. Adriano Giannini è il padre della ragazzina, Alice, interpretata da Arianna Becheroni.
Che padre è?
«Un criminale in carcere, per salvare la pelle l’unica che lo può aiutare è la figlia, che non vede da dieci anni. Non ha nessuna remora a coinvolgerla, strappandola a una vita normalissima. Le vuole bene, ma il suo amore non è mai disinteressato, la manipola, è uno spregiudicato persuasivo. Sua madre (Lucia Mascino) ha preso le distanze quando ha scoperto che sono un malavitoso e alla figlia ha fatto credere che ero morto».
La figlia che parabola avrà?
«All’inizio è dolce, fragile. Il film è visto con i suoi occhi ed è ispirato al libro L’intoccabile di Marisa Merico, una storia vera. Nel tentativo di conoscere suo padre, mette da parte la timidezza e diventa una criminale. La domanda è: fino a che punto è disposta ad arrivare per scoprire se stessa e la sua famiglia?».
Che genere è?
«Questo è il punto, è una commistione di generi, non sembra una serie italiana. È un fluido passaggio tra il grottesco, il teen drama, la dark comedy, il realismo magico. C’è un po’ di Lynch, di Wes Anderson, dei fratelli Coen, un po’ di pulp alla Tarantino e di Nicolas Winding Refn, il regista di Drive. Ci sono cambi di tono. La scommessa era di mescolare tutto individuando uno stile preciso, una estetica definita, all’interno della cultura pop degli Anni ‘80».
Lei dov’era all’epoca?
«Ero un adolescente e di quegli anni romani ricordo le Vespe 50 special, le Clarks ai piedi, la cinta del Charro, le camicie del Portone e i Duran Duran. Crescendo, non avevo alcuna idea di cosa fare nella vita. Non volevo fare l’attore, non mi interessava il mondo del cinema per una strana contrapposizione al fatto che mio padre, Giancarlo Giannini, non lo vedevo mai perché era sempre in giro a fare film. Pensavo di darmi allo sport, la ginnastica o il tennis, ero dotato ma non competitivo, cosa che mi è rimasta addosso. Per guadagnare ho fatto l’operatore al cinema, per dieci anni ho lavorato con Olmi, Tornatore. Poi ho pensato alla regia e per avere spalle culturali più solide, sapevo poco di Shakespeare e Cechov, e ho frequentato una scuola di recitazione».
Le è capitato di incrociare suo padre sui set?
«Come attore mai, come operatore due volte. Facevamo finta di non conoscerci. Da ragazzo mi tormentavano con la storia che ci assomigliamo e reagivo male».
Ha recitato in Tre piani di Nanni Moretti.
«È candidato a un solo David? È strano. Con me lui è sempre stato gentile, forse avrà influito che è amico di mia madre, (l’attrice Livia Giampalmo). Tutte le storie che si raccontano su di lui, sulla sua complessità, io non le ho mai vissute».
Le davano del sex symbol.
«Mah, io rivendico il diritto alla normalità. Gli ultimi sex symbol, per me, sono stati Paul Newman e Robert Redford in Butch Cassidy».
È vero che scrive fiabe?
«Sì, una con mia moglie, Gaia Trussardi, la storia di un pesciolino. Altre da sole, come l’innamoramento fra due girasoli. Nei campi si danno le spalle, ho pensato a un incontro d’amore tra loro. Mi piace il mondo dei bambini, anche se non ho figli».
Nel film lei recita in calabrese.
«È poco usato al cinema ed è un vantaggio, così nessuno può criticarmi. Ma non ho spinto sull’accento aspirato».