Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  aprile 22 Venerdì calendario

Quei 15 anni che ci restano prima del suicidio demografico

Abbiamo 10 anni, forse 15 ma non uno di più, per evitare che l’Italia porti a termine il proprio suicidio, dice Roberto Volpi. Un suicidio demografico che si prepara da una quarantina d’anni e che si sta velocemente avvicinando al momento fatale. Chiariamo subito: non è allarmismo. Volpi è uno statistico serio che ha studiato a lungo l’andamento e le caratteristiche della popolazione del Paese. Ha diretto uffici di statistica, progettato il Centro nazionale di Documentazione per l’infanzia e l’adolescenza, scritto saggi. Non gli piace però correre sui binari del pensiero dominante, soprattutto tacere di fenomeni che gli paiono evidenti ma dei quali non si parla.
La sua analisi su come stiamo camminando da sonnambuli verso il deserto dello spopolamento e verso un tasso di natalità che tende a zero è ora in un nuovo, potente saggio: Gli ultimi italiani. Come si estingue un popolo, edito da Solferino, da pochi giorni in libreria.
Di demografia non si parla quasi mai, in Italia. Dovrebbe invece essere la prima preoccupazione: non è infatti solo una fotografia fissa che si può allargare o restringere e mantiene le sue proporzioni. Volpi lo spiega molto bene: è una realtà che al variare cambia le caratteristiche intime della società, le dà vitalità oppure la rattrista e la avvilisce fino a toglierle il respiro. In Italia siamo nel secondo caso, la demografia sta spegnendo il Paese. Ciò nonostante, le classi dirigenti non se ne occupano. Il caso più recente, citato da Volpi, è il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che dell’argomento sostanzialmente si disinteressa. Eppure, è a partire dall’andamento demografico che si può immaginare il futuro.
I numeri e le statistiche che l’autore porta sono spaventosi: siamo forse il Paese al mondo che più rischia l’estinzione. Estinzione si fa per dire: qualche italiano che farà una figlia ci sarà anche tra cent’anni; ma il crollo della popolazione è nelle carte. E così le conseguenze devastanti che ne deriveranno. Gli italiani, nel 2020 attorno ai 60 milioni, nel 2070 saranno 47,6 milioni, 12,1 in meno, secondo l’Istat (altre proiezioni prevedono anche peggio). A fine secolo, non supereranno probabilmente i 40 milioni, forse si arriverà a 30 se le nascite saranno attorno alla soglia di 400 mila l’anno, ha calcolato il presidente dell’Istat, Gian Carlo Blangiardo. Nel 2050, per ogni nato ci saranno due morti. «Una catastrofe», dice Volpi, destinata a produrre «una popolazione pressoché spenta dal punto di vista vitalistico-riproduttivo».
Mezzogiorno deserto
Da qui al 2070, il Nord avrà il 12% di abitanti in meno, il Centro il 18, il Sud uno spaventoso 33%
Che cosa succederà a quel punto? Come sarà l’Italia dimezzata? Quasi nessuno se lo chiede. Nel libro, l’autore disegna una geografia di spopolamento di intere aree, di abbandono, di estinzione. Il calo demografico è un fatto in tutto il Paese ma è il Mezzogiorno a soffrirne di più: da qui al 2070, il Nord perderà 3,3 milioni di abitanti (il 12%), il Centro 2,1 (18%) e il Sud più di 6,6 milioni, che è uno spaventoso 33% in meno rispetto agli abitanti di oggi. Il libro è ricco di numeri e di scenari che ne conseguono.
La parte forse ancora più incisiva del saggio, certamente quella che farà più discutere, riguarda però le origini e le ragioni del declino accelerato della popolazione italiana, del fatto che non si facciano più figli. Volpi ritiene che l’economia – la difficoltà dei giovani a trovare lavoro, per dire – non spieghi tutto. Che crederlo sia un errore di economicismo marxista. E non pensa nemmeno che sia la mancanza di asili nido e di servizi a determinare la decisione degli italiani e delle italiane di non procreare: pannicelli caldi, li definisce, di fronte alla portata del crollo demografico. L’origine della crisi è culturale e sta nel portato degli Anni 60 – il Sessantotto – e soprattutto nelle legislazioni degli Anni 70: divorzio, aborto, nuovo diritto di famiglia. Il crollo del numero dei matrimoni religiosi, in particolare, da allora è stato, nella lettura di Volpi, una forza potente nella limitazione delle nascite: nel 1963, su 420 mila matrimoni, 400 mila furono cattolici; nel 2019, questi erano meno della metà dei 184 mila totali. Con l’introduzione del divorzio, viene meno il «per sempre» e con esso l’idea di famiglia composta da figli. Volpi non fa questioni morali, vede corrispondenze nei numeri tra calo delle coppie stabili e calo delle nascite: non necessariamente nessi di causalità ma una dinamica che accompagna l’evoluzione della società dal dopoguerra.
L’analisi, nel libro, va molto oltre il conformismo su questi temi: natalità; allungamento dell’età a cui ci si sposa; poco sesso; nascita e declino del figlio unico; «pavidità demografica di massa»; immigrazione e moltissimo altro. Se la può cavare, l’Italia? Non sarà facile: Volpi propone alcune misure urgenti ma non è affatto certo che possano bastare.