Corriere della Sera, 22 aprile 2022
Intervista a Vanessa Beecroft
«Vuole sapere perché me ne sono andata dall’Italia, venticinque anni fa?».Forse non si sentiva compresa, capita?
«Ma magari! Magari fossi stata poco compresa, poco capita, poco apprezzata. Me ne sono andata per l’esatto contrario. Facevo delle performance mettendo in scena delle donne nude con la speranza che il pubblico si indignasse. Volevo creare un conflitto e invece niente: venivano a vedermi, non si scandalizzavano, dicevano cose come “è una trasposizione nella contemporaneità di Piero della Francesca!”. C’è troppa cultura in Italia, troppa. A me la cultura mette sempre a disagio. Invece di iscrivermi al liceo artistico, avrei voluto fare studi classici, studiare il greco e il latino. Oggi non so nulla. Mi mette a disagio anche l’andare in Sicilia: là tutti conoscono tutto e io invece sento di non avere le basi per capire quello che c’è, mi sento inadeguata».
Nel 1997 ha scelto di andare negli Usa.
«Avevo bisogno di un pubblico più ignorante con cui creare un conflitto, quello degli Stati Uniti lo è. Pensi, dopo tanti anni mi guardano ancora con sospetto».
Ne sarà felice.
«Adesso non tanto, la cosa mi ha un po’ stancato. Star lì a combattere, come se fossi una veterana, forse non voglio più. In realtà non so neanche io che cosa voglio. Sono come il libro che mi trascino appresso dal 2011: scrivo, cancello, riscrivo e ricancello. L’ha visto la Kraus, vuole aiutarmi a completarlo».
Chris Kraus, l’autrice di «I love dick»?
«Lei. Tanti intellettuali laggiù mi snobbano, Kraus invece dice che sono “a genius”. Mi ripete di non cambiare più, di non toccare più nulla. “È un libro di interviste, Vanessa: trascrivi, taglia, manda in stampa, stop”».
I quadri viventi di Vanessa Beecroft l’hanno resa una delle artiste italiane più famose al mondo. Le sue performance – che hanno messo in scena soprattutto la donna e hanno spaziato dai disturbi alimentari alla «diversità genetica», inseguendo il miraggio dell’«uguaglianza umana» – hanno fatto discutere ovunque pubblico e critica. Nata a Genova nel 1969, mamma italiana e papà britannico, infanzia sul lago di Garda, liceo artistico a Genova, accademia di Brera, poi la celebrità in Italia e negli Usa, dove collabora da anni col rapper Kanye West, Beecroft si trova in questi giorni a Roma per un sopralluogo a Cinecittà. La presidente dell’Istituto Luce-Cinecittà Chiara Sbarigia, dopo un lungo scambio di e-mail e senza mai averle mai neanche parlato al telefono, l’ha convinta a chiudere un trittico di mostre in cui si riflette sul rapporto tra donne e potere. Si chiama «Monuments women», con un rimando al film «Monuments men» di George Clooney. La performance di Beecroft, in autunno, sarà il momento più importante della rassegna. Beecroft e Sbarigia si sono capite grazie a un codice tutto loro, forse generato dal fatto che entrambe sono cresciute in famiglie che avevano scelto di non avere la televisione. «Io», aggiunge Beecroft, «non avevo neanche il telefono».
Che cos’altro le è mancato da bambina?
«Tutto. Sono stata una “bambina senza”. Senza televisione, senza telefono, senza papà, senza chiesa, senza maschi, senza macchina. Mia mamma mi portò via da Londra piccolissima, come una rifugiata. Voleva stare da sola, in campagna, tra le sue letture e la sua musica».
Le mancava suo papà?
«Tantissimo. Mi mandava delle lettere, le leggevo e piangevo. Guardavo in continuazione la sua foto, assomigliava a Michael Caine. Dandy, chic, impeccabile nel gusto e nel modo di vestire, un vero british: l’esatto contrario di mia mamma».
Ha incolpato sua mamma di questa mancanza?
«Un po’. Comunque ero una bambina buona. Eravamo andate a vivere sul lago di Garda, in mezzo alla natura. Io ero una bambina felice ma un po’ straniata».
Ha avuto altri fratelli?
«Uno. Ma mia mamma l’ha mandato a vivere dai nonni. Era troppo giovane per due figli. Già dalle elementari andavo a scuola a piedi, libera. Con la mia amica, che arrivava in macchina accompagnata dal papà, ci vedevamo davanti al negozio di generi alimentari: lei prendeva panino e merendine, io nulla».
Rimaneva a digiuno per tutta la mattina?
«Una mela portata da casa, stop. Quanto a merendine e simili, mia mamma sosteneva che se li avessi anche solo assaggiati sarei diventata stupida. Ero terrorizzata dalla paura di diventare stupida, quindi stavo alla larga. Guardavo i miei compagni che mangiavano, che ne so, delle patatine in busta e tra me e me pensavo “oddio, questi stanno diventando tutti stupidi”. Quello che valeva per il cibo, valeva anche per la musica. Per cui si ascoltava da Enzo Jannacci a salire, verso la musica classica».
Lei ha quattro figli.
«Tre maschi e una femmina: il più grande vent’anni, il più piccolo nove. Mi vuole chiedere se sono diventata anch’io come mia mamma? Un po’ sono come lei, un po’ il contrario. Sono il contrario quando sto troppo addosso ai miei figli, mentre mia mamma fondamentalmente lasciava che io crescessi da sola; ma sono anche un po’ come lei quando li spavento sulle cose che fanno diventare stupidi».
Sempre le merendine?
«Non solo. A casa mia c’è il divieto di parlare di soldi e di marchi. Ai miei figli dico: i marchi li potete comprare e indossare ma non li dovete mai nominare. Chi parla di marchi diventa stupido».
Lei è stata molto criticata dal mondo dell’arte per aver accostato il suo nome a tanti marchi.
«Scelgo di lavorare con brand con cui posso aprire un conflitto, combatterli da dentro. Vuitton si era espansa nell’epoca del colonialismo? Bene, nella mia performance ho svuotato le loro mensole degli Champs-Élysées e vi ho incastrato delle ragazze bianche e nere, stipate come se fossero vestiti. All’epoca c’era Marc Jacobs: ho fatto mettere via la sua roba, ho riportato dentro i vecchi bauli che stavano nel loro museo».
Sarà diventata ricchissima.
«Se avessi voluto assecondare il mercato, mi sarei complicata la vita molto meno di quanto ho fatto. Io cerco una specie di conflitto, sempre. Ma in America non puoi sopravvivere se fai questo tipo di lotta perenne con tutti. Coi galleristi ho sempre litigato. Non ho accettato le condizioni di Gagosian, sono andata via sbattendo la porta, spesso anche sbagliando».
È di sinistra?
«Mi definirei marxista in purezza, nel senso dell’estetica di Marx ed Engels. All’inizio lo dicevo anche negli Stati Uniti, poi ho smesso di ripeterlo perché mi guardavano male».
Si è innamorata tante volte?
«Forse tantissime, forse mai. Non lo so. I miei due mariti mi hanno lasciata entrambi e nello stesso modo. Senza scenate, senza liti, senza tradimenti, senza cose brutte. Un giorno si sono alzati, hanno aperto la porta, se ne sono andati. Il primo dopo otto anni, è stato l’uomo che mi aveva portato a Los Angeles nel 2008 perché era stato preso a lavorare alla Warner Bros.; col secondo siamo stati insieme tredici anni, se n’è andato di casa l’anno scorso. Forse non sopportavano più il mio modo di essere, il mio modo di vivere li ha esasperati. E così, dopo vent’anni da sposata, ora sono da sola e non so neanche come muovermi. Questa cosa mi rende triste ma a volte felice, quello che mi succederà mi spaventa e mi incuriosisce».
Il sodalizio col rapper Kanye West?
«Nasce alla fine del mio primo matrimonio. Mi cercava da mesi ma io non rispondevo al telefono. Non sapevo neanche chi fosse. Lavoriamo assieme ancora oggi ma non è una cosa fissa: a volte mi paga e a volte no, a volte mi dà un sacco di soldi per non fare nulla, va a periodi. Comunichiamo tramite assistenti perché io, diciamo così, ho dei problemi sociali (sorride, ndr) e non ho rapporti diretti con tante persone. Tra le altre cose mi ha chiesto di lavorare con sua moglie Kim Kardashian per renderla un po’ più raffinata e l’ho fatto».
Lei non disegna quadri o realizza sculture. Delle sue performance non rimane nulla. Che cosa prova alla fine?
«Mi si spezza il cuore ogni volta. Certe ragazze che hanno lavorato per me tornano qualche volta a trovarmi ma faccio finta di non riconoscerle, per me finiscono insieme all’opera. Mi addolora e mi piace questo senso di niente che rimane alla fine di tutto. Vedo le mie performance e non mi piace nulla, cambierei tutto. Il tempo di capire che sono state apprezzate dagli altri e sono già sparite, non ci posso fare nulla».
Perché ha scelto il liceo artistico e non quel liceo classico che le piaceva tanto?
«Mi sono sentita, come dire, “chiamata”. E ho risposto».
Provi a immaginare come la descriveranno i manuali di storia dell’arte tra cent’anni.
«Una cosa tipo “Vanessa Beecroft, nata a Genova, vissuta eccetera eccetera eccetera, è responsabile dell’invenzione di gruppi di donne organizzate in formazioni geometriche, che da un’iniziale posizione eretta si disfano al suolo in un’unità aristotelica di tempo, luogo e azione; ogni gruppo è in perenne conflitto col pubblico”».
Ci si riconosce?
«Veramente no. Io non sono nessuno. Mi sveglio la mattina e non so che cosa faccio, se le opere che metto in scena sono davvero mie, se i figli bellissimi che ho sono i miei, se queste cose le ho fatte davvero io. Oppure no».
I suoi figli che cosa dicono del suo lavoro?
«I miei figli non sanno nulla di quello che faccio. Siamo stati a Palazzo Abatellis, a Palermo, un posto che amo. La direttrice, vedendomi, mi è corsa incontro urlando “Vanessa Beecroft!”, altre persone si sono girate. I miei figli mi guardavano come a dire “ma perché ti conoscono?”».
Le avranno chiesto che lavoro fa?
«Niente, rispondo io».