Corriere della Sera, 22 aprile 2022
Intervista a Emmanuel Macron
PARIGI Sulla libreria Les Lieux de mémoire di Pierre Nora, un volume del suo mentore Paul Ricoeur, un tascabile di Proust, le memorie del ministro blairiano Peter Mandelson, The Third Man. Alle pareti, incorniciate, la maglietta della Nazionale francese firmata da tutti i campioni dei mondiali di calcio 2018 in Russia – erano davvero altri tempi —, un’altra maglietta della squadra del cuore, l’Olympique Marseille, e ancora un pezzo pregiato, che a fine intervista il presidente mostrerà con orgoglio al giornalista del Corriere : la foto del colpo di testa di Basile Boli che il 26 maggio 1993 a Monaco di Baviera consegnò all’OM la Champions League, sconfiggendo il Milan di Fabio Capello.
A tre giorni dal voto decisivo per l’Eliseo, Emmanuel Macron apre le porte del quartier generale della sua campagna elettorale, poco lontano dall’Eliseo: è il presidente della Repubblica in carica, certo, ma anche il candidato che spera di essere riconfermato per altri cinque anni. Davanti ai giornalisti di Ouest France, del Corriere della Sera e del gruppo tedesco Funke, Macron parla – con soddisfazione molto ben nascosta – del duello tv contro Marine Le Pen della sera precedente, della svolta ecologista che potrebbe assicurargli l’appoggio di almeno parte della sinistra, e della guerra in Ucraina. È quando affronta questo tema che cambia tono, diventa più preoccupato. Non sottovaluta il ballottaggio di domenica, niente è già deciso. Ma la gravità arriva quando nella discussione compaiono il massacro di Bucha, i missili di Vladimir Putin, e quel che l’Europa potrebbe essere chiamata a fare.
Signor presidente, pensa di avere vinto il dibattito in tv contro Marine Le Pen?
«Le cose non si vivono né si considerano in questo modo. Lo spazio tra i due turni di voto dura quindici giorni, il dibattito è un momento nel quale si espongono le proprie idee e, attraverso un confronto rispettoso, si cerca di mostrare la coerenza del proprio progetto e di scovare le incoerenze delle idee che si combattono. Da questo punto di vista, è un momento utile».
Quali sforzi individuali chiederà ai francesi quanto all’ecologia?
«L’ecologia nella quale credo è l’ecologia della pianificazione: si dà visibilità a tutti, dai cittadini alle grandi imprese. Responsabilità condivisa, ognuno ha il suo ruolo. Voglio portare questa riforma in base alla quale i risultati ecologici e sociali del responsabile di un’impresa entrano nella sua valutazione e remunerazione. E questa è una riforma che voglio fare non solo a livello francese, ma europeo».
E se la situazione geopolitica peggiora?
«Stiamo vivendo ore drammatiche, e molto dure. Con la prospettiva del 9 maggio (l’anniversario della vittoria sul nazismo, ndr), la Russia intensificherà i suoi attacchi sull’Est ucraino e dovremo prendere decisioni. E se decidiamo nuove sanzioni, o se la Russia decide contro-sanzioni sugli idrocarburi, ma ancora più sul gas, è chiaro che gli europei dovranno chiedere sforzi a tutte le famiglie. A quel punto spiegheremo che dovremo abbassare le temperature, ridurre un po’, per essere meno dipendenti. Non ne vedremo le conseguenze nella primavera o nell’estate 2022 (abbiamo ricostituito gli stock), ma l’inverno prossimo questo non accadrà se non avremo più il gas russo. Voglio rassicurarvi, non è lo scenario nel quale ci troviamo oggi, ma questo scenario può arrivare».
Bisogna varare un embargo completo sul gas e il petrolio russi?
«È un tema che potrebbe arrivare sul tavolo negoziale, oggi non ancora. Il carbone e il petrolio entrano già nei negoziati, il gas non ancora. Conosciamo l’immensa difficoltà che questo provoca. È anche per questo che da anni mi sentite parlare di sovranità energetica europea. Ne parlo dal mio discorso alla Sorbona (26 settembre 2017, ndr)».
Se Marine Le Pen dovesse diventare presidente, che succederebbe all’Europa?
«Il progetto difeso da Marine Le Pen è un’uscita dall’Europa non dichiarata, come accade anche per molti altri temi. Marine continua a spiegarci che si comporterebbe in modo diverso da Le Pen. Ma Le Pen è sempre lì».
Perché rappresenterebbe l’uscita della Francia dall’Europa?
«Quel che Marine Le Pen propone è di diminuire il contributo della Francia all’Europa, rinunciare alla primazia del diritto europeo sul diritto nazionale, uscire dal mercato europeo dell’energia, stabilire una preferenza nazionale sui posti di lavoro, ristabilire i controlli alle frontiere con tanti doganieri quanti ce ne erano nel 1990, è scritto nel suo programma. Significa uscire dal progetto europeo sul clima, dalle collaborazioni con la Germania, e costruire una specie di alleanza delle nazioni europee, che non sarebbe dunque più l’Unione europea, e un’alleanza con la Russia. Dunque, sarebbe la fine dell’Unione europea e la fine dell’asse franco-tedesco. Credo che si debbano chiamare le cose con il loro nome».
A proposito dell’Ucraina, mercoledì la Russia ha testato un nuovo missile intercontinentale. Quale deve essere la risposta degli occidentali?
«Se mi sono tanto battuto per vie diplomatiche, è perché nel contesto attuale, ogni giorno in cui la Russia decide di passare al livello superiore sul piano militare, diplomatico o tattico, riduce le sue possibilità di un ritorno alla normalità, e riduce la nostra capacità di costruire una pace durevole. Tenuto conto dei crimini di guerra adesso accertati, delle scelte fatte dalla Russia, del modo di condurre la guerra nel Donbass e a Mariupol, tenuto conto delle provocazioni sul nucleare a partire da fine febbraio e dei test fatti mercoledì, c’è chiaramente una volontà di escalation da parte della Russia. La nostra prima responsabilità è di fare tutto il possibile per aiutare l’Ucraina. Penso che abbiamo tutti avuto ragione nell’aiutare l’Ucraina, da un punto di vista finanziario e militare. Chi la pensa come Marine Le Pen non avrebbe offerto alcun aiuto all’Ucraina. In secondo luogo, dobbiamo aumentare le sanzioni e mantenere la pressione sulla Russia, ma facendo attenzione a non cedere ad alcuna escalation».
Il rischio oggi è forte quanto a fine febbraio o è aumentato?
«È molto alto. Quel che è successo mercoledì, con il lancio del missile intercontinentale, è molto grave. I due pericoli sono l’escalation verticale e quella orizzontale. La prima consiste nel cambiamento di natura della guerra e nel ricorso ad armi non convenzionali, da quelle chimiche alle nucleari balistiche. L’escalation orizzontale è la cobelligeranza dei Paesi alleati o di altre potenze. Penso che dobbiamo fare di tutto per evitare questo incendio, fermando la guerra. Ecco perché, accanto alla nostra politica di pressioni e di sanzioni, dobbiamo continuare a parlare ai nostri partner, nel Golfo, in India, in Cina, per evitare una disgregazione del mondo. Una frattura tale che, di fronte alla Russia, esisterebbe un solo campo, formato dagli Stati Uniti e dall’Europa, mentre altri potrebbero sfilarsi. La responsabilità dell’Europa – e a questo riguardo i nostri Paesi, la Francia, l’Italia, la Germania, hanno un ruolo di potenze mediatrici – è di continuare a parlare agli altri per evitare una frattura del mondo. Perché porterebbe a un’Europa vassalla, e alla rottura completa della nostra Europa, alla fine. Anche questo sarebbe un rischio di escalation».
Lei dice che bisogna aiutare l’Ucraina, anche militarmente. L’Europa deve fornire anche armi pesanti, in particolare carri armati come i Leopard tedeschi?
«Ognuno si prende le sue responsabilità con i suoi equilibri politici, e non mi immischio nella vita politica degli uni e degli altri. Siamo molto coordinati. Ho parlato due giorni fa con il cancelliere Scholz a questo proposito. Consegniamo già forniture importanti, dai Milan (missili anticarro, ndr) ai Caesar (cannoni, ndr) a molti altri tipi di armamenti. Dobbiamo continuare su questa strada. Con sempre una linea rossa, che è quella di non entrare nella co-belligeranza».
I carri armati sono necessari?
«Alcuni Paesi hanno fatto questa scelta. È un dibattito oggi al cuore della vita politica tedesca, una scelta che appartiene in modo sovrano alla Germania e questo va rispettato. Con il cancelliere abbiamo la stessa strategia: dobbiamo aiutare al massimo gli ucraini, ma dobbiamo stare attenti a non essere mai cobelligeranti».
Quanto alle prossime sanzioni, il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi prepara l’opinione pubblica, dicendo che dovremo a un certo punto scegliere tra l’aria condizionata e l’aiutare davvero gli ucraini. La Germania appare più prudente. Pensa che esista il rischio di una divisione tra europei?
«No. Siamo sempre riusciti a costruire un’unità. È normale che esistano precauzioni, sensibilità differenti. Siamo tutti coscienti che siamo davanti a scelte importanti. Lo dico con senso di responsabilità, tanto più che la Francia dipende molto meno dal gas e dagli idrocarburi russi. Siamo un mercato interconnesso. E io tengo all’Europa. Saremo solidali. È anche per questo che rispetto il cammino politico e sociale che esiste nei diversi Paesi. Ma dal primo giorno abbiamo agito in quanto europei. Con la stessa coscienza delle cose, e la stessa volontà di fare. Alla fine, troveremo la buona soluzione insieme».
Anche sulle sanzioni, quindi?
«Quando guardo alle cose con un po’ di distacco, dalla crisi del Covid alla guerra in Ucraina, l’Europa ha saputo agire in modo unitario. Anche prendendo decisioni che molti commentatori giudicavano impossibili. Molti, a maggio 2020, non pensavano che con la cancelliera Merkel saremmo arrivati a decidere una politica di investimenti comune. Molti ritenevano impossibile fare uscire la banca centrale russa dal sistema Swift, e pensavano che non saremmo mai riusciti a sanzionare questi grandi protagonisti. Invece l’abbiamo fatto e lo stiamo facendo. Perché responsabili politici e opinioni pubbliche sanno che l’unità europea è il nostro interesse comune. Anche per questo bisogna lottare per non indebolirlo. Se guardo a Italia, Germania, Francia, vedo che siamo mano nella mano. Non abbiamo la stessa storia, la stessa sensibilità, ma ci sono tre dirigenti che si rispettano, che si apprezzano e che agiranno insieme. Prenderemo le decisioni al momento opportuno».
Mario Draghi qualche giorno fa ha dichiarato in un’intervista al «Corriere» di sostenere i suoi sforzi diplomatici con Putin, ma ha aggiunto: «Comincio a pensare che abbiano ragione coloro che dicono: è inutile che gli parliate, si perde solo tempo». Che cosa ne pensa?
«Dovremo continuare a parlare a Vladimir Putin. Sia io sia Mario non abbiamo più parlato con lui dopo le scene di Bucha. Siamo rimasti tutti attoniti, sopraffatti. Semplicemente, ho parlato a Vladimir Putin ogni volta che Zelensky me l’ha chiesto. Non bisogna dimenticare che il presidente ucraino vuole questo contatto. È in questo contesto che il nostro ruolo è utile. E bisognerà preparare la pace. Un giorno ci sarà un cessate il fuoco. Ci saranno potenze garanti, e noi saremo tra loro. Dunque penso che si debba essere molto attenti. Lo dico con molta gravità e, oserei dire, con una forma di peso etico, ma se per stanchezza scegliamo di non parlargli più, allora lasciamo la responsabilità di parlare con Vladimir Putin al presidente turco, al primo ministro indiano, al presidente cinese. E decidiamo che saranno i non europei a costruire la pace in Europa, il giorno dopo. Dunque, anche se è molto duro, anche se è talvolta inefficace, bisogna insistere».
Molto duro, lei dice. Al di là della fatica fisica di questi numerosi colloqui con Putin, si ha la sensazione che lei ne abbia tratto una fatica quasi morale, psicologica.
«Sì. È dura trovarsi davanti alla negazione dei fatti. È dura passare ore a parlare con il presidente Zelensky, con persone che vivono l’orrore, un orrore manifesto. Siamo tutti sconvolti. E poi hai davanti a te qualcuno che nega, che ne ride, che ripete che è solo una messinscena…».
Questo l’ha segnata?
«Sì, certamente. Già a cominciare da febbraio. Ma resto convinto che, storicamente, questo è il nostro ruolo. Per me è molto importante, un’ossessione. Si tratta dell’Europa, e gli europei devono essere presenti attorno al tavolo per costruire la pace in Europa».
Come se la spiega questa guerra?
«Il presidente Vladimir Putin è il leader della Russia. La Storia spiegherà quel che è successo in questi ultimi anni, perché un uomo nato a San Pietroburgo, che ha vissuto a lungo in Germania, che ha passato i primi dieci anni della sua vita politica nazionale a costruire il ritorno della Russia nel concerto delle nazioni, abbia potuto poi metodicamente distruggere quel che aveva compiuto. Tornando a sogni imperiali dell’inizio del XX secolo o dell’Ottocento. Non sto esprimendo un’opinione, è la realtà davanti ai nostri occhi. Ma bisogna costruire qualcosa con lui. È un uomo intelligente, non lo contesto. È un uomo intelligente. E voglio credere che ci sia ancora in lui qualcosa che lo porti a volere lasciare alla Storia, al suo popolo, qualcos’altro che non sia il caos e l’ignominia. Questo filo non voglio abbandonarlo. So che spetta a noi europei costruire la pace sul nostro suolo. Il giorno del cessate il fuoco dovremo essere presenti al tavolo dei negoziati per garantire la sicurezza collettiva e la pace nella regione».
Tutti gli europei?
«Sì, certamente. Ognuno con la sua vocazione. I nostri tre Paesi, ma penso che tutta l’Unione europea dovrà essere presente».