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 2021  ottobre 22 Venerdì calendario

Intervista a Colin Thubron - su "Tra Russia e Cina. Lungo il fiume Amur" (Ponte alle Grazie)

Colin Thubron si è rimesso in viaggio. A ottant’anni, da solo (come preferisce). Senza nessuno a pregiudicare gli incontri. "Se sei solo, susciti più curiosità", ha detto in una recente intervista al Financial Times, "un russo pensa che tu abbia bisogno di una vodka". È tornato verso oriente, nei territori che predilige. "Nel cuore dell’Asia, all’antica convergenza di steppa e foresta", dove "le praterie della Mongolia si muovono verso la Siberia in un mare grigio-verde", racconta nell’incipit del suo nuovo libro The Amur River (in uscita per Ponte alle Grazie, nel 2022, con il titolo Tra Russia e Cina).

Seguendo per quasi tremila miglia il corso di un fiume quasi sconosciuto - a cavallo, in autostop, in barca, in treno - dalle sorgenti mongole e lungo il confine russo-cinese ("la frontiera più densamente fortificata della terra") fino all’oceano Pacifico. Da oltre cinquant’anni, scrive non fiction (11 libri di viaggio) e fiction (8 romanzi). Da travel writer, come si definisce senza snobismo, Thubron continua a cercare l’esperienza diretta, le storie, mettendosi in cammino. "Fuori dalle piste più battute", rivendica. Sa che ogni frase che scrive è "impregnata della mia cultura, classe, razza", ma si mette in ascolto. Entrando in relazione con le persone del luogo, che si rivelano più inattese e varie dei cliché e che consentono alla sua prosa limpida di moltiplicare i punti di vista.

Usando la prima persona, controllata, in funzione del racconto. In viaggio, non teme che possa accadere qualcosa di pericoloso; semmai che non accada nulla o che vadano persi i taccuini con gli appunti, la cosa più preziosa nel suo zaino. Lo abbiamo intervistato in occasione del Premio Chatwin - che felicemente riparte, nel ventennale della sua fondazione - che gli verrà conferito domani a Lerici per "una vita di viaggi e passione letteraria".


La sua vita di scrittore è iniziata in Medio Oriente, poi ha scritto di Unione Sovietica e Cina. Il suo ultimo viaggio l’ha portato di nuovo in quei mondi: in Mongolia, tra Russia e Cina, attraverso la Siberia. Cosa l’ha spinto lì?
"Una lunga ossessione per l’Asia. È cominciata con la romantica curiosità di un giovane per il mondo arabo. Poi, negli anni ’80, si è trasformata in una fascinazione per quelle terre - Russia e Cina - che ero stato educato a temere. L’Amur sembrava un’estensione naturale di questi viaggi: un fiume dove le due grandi potenze ex comuniste trovano il loro limite e la loro comune pericolosa frontiera".


Lei ha detto di essere stato attratto dal desiderio di fare amicizia con nemici che la sua generazione aveva ereditato, i grandi giganti Russia e Cina attraverso i quali ha viaggiato a lungo. Come li ha visti cambiare nel corso degli anni?
"Le persone cambiano molto più lentamente di quanto facciano i sistemi. E la gente comune, in Russia, è rimasta ampiamente riconoscibile. Ma negli anni Novanta il collasso del potere sovietico ha provocato un profondo disordine nelle campagne. La disintegrazione delle fattorie collettive e statali, con le relative infrastrutture, ha portato a una continua insicurezza e migrazione verso le città. La mia prima e più intensa esperienza della Cina è avvenuta subito dopo la rivoluzione culturale, quando la popolazione si stava ancora riprendendo da ciò che era successo. Quello che mi colpisce ora è il grande cambiamento sociale che sta avvenendo: il passaggio da una vita rurale di famiglia allargata a un nucleo familiare con un solo figlio che vive in un appartamento dentro un grattacielo. Le conseguenze sociali di questo processo si stanno ancora manifestando".


In genere lei viaggia da solo, su mezzi locali, con poco bagaglio, e la conoscenza della lingua del posto - il russo o il cinese mandarino, per esempio - come ponte per stabilire rapporti, connessioni.
"Per me, una certa conoscenza delle lingue (anche imperfetta come la mia) è stata cruciale. E viaggiare da solo, piuttosto che con un altro occidentale, mi aiuta a sentire di aver lasciato la mia cultura alle spalle e che devo cercare di percepirne e capirne un’altra".


I suoi libri sono pieni di incontri, di dialoghi. Lei ha scritto che il contatto con persone reali serve a umanizzare la mappa.
"Sì, amo le mappe, ma possono essere ingannevoli. Sulla mappa i paesi appaiono distinti e omogenei. Nel momento in cui si viaggia si scopre la complessità umana".


Lei divide la sua scrittura tra due generi: libri di viaggio e romanzi. Per lei la letteratura di viaggio è un genere letterario unico. Come può un libro di viaggio restituire un’immagine, un mosaico di un paese, di una cultura?
"Un libro di viaggio, con tutte le sue insidie, appartiene a un genere che può abbracciare una cultura straniera non attraverso tesi accademiche ma tramite un’evocazione poliedrica: conversazioni, atmosfere, storia, paesaggio, fino a odori e rumori occasionali. Questi dettagli possono essere accumulati in maniera casuale, ma alla fine di un libro emergerà un ritratto, visto attraverso la mente e i sensi di un singolo individuo: semplicemente una cultura che ne guarda un’altra".


Per scrivere di viaggi vi sono molti metodi e stili. Come può definire il suo?
"Ci sono innumerevoli modi. E nel momento in cui qualcuno stabilisce delle regole, ci sarà sicuramente qualcun altro che le infrangerà in modo creativo. Bruce Chatwin (sono onorato di ricevere il Premio intitolato a suo nome) è stato proprio uno di questi autori originali: il suo In Patagonia era quasi sui generis. La mia scrittura di viaggio è iniziata in modo piuttosto convenzionale, per poi svilupparsi grazie a una maggiore attenzione verso le lingue dei luoghi in cui viaggiavo che mi ha permesso di comunicare con la gente comune".


Quali autori sono stati fonte di ispirazione per lei?
"Patrick Leigh Fermor e Freya Stark sono stati gli autori che mi hanno influenzato maggiormente all’inizio: l’uno, per la sua esuberanza descrittiva e l’immaginazione; l’altra, per la musica della sua prosa. Più in generale, da bambino sono stato influenzato dalla lettura di poesie. Le possibilità e la bellezza del linguaggio mi incantavano (e a volte mi portavano fuori strada!)".


Claude Lévi-Strauss, più di sessant’anni fa, parlò di fine dei viaggi. In era di Internet, e di pandemie, quale possibile senso ha secondo lei l’andare?
"Internet può dare solo l’illusione del viaggio. Non può riprodurre l’esperienza sul campo. Un itinerario è una scelta personale. E non si può prevedere quali possibilità, doni e vulnerabilità si incontreranno. Il valore del viaggio diventa chiaro se immaginiamo un mondo senza di esso".