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 2022  aprile 21 Giovedì calendario

Sul Padiglione Italia di Gian Maria Tosatti

VENEZIA. Per la prima volta nella storia della Biennale il Padiglione Italia, che domani sarà inaugurato dal ministro Dario Franceschini, è stato affidato a un unico artista: Gian Maria Tosatti, scelto dal curatore Eugenio Viola (il Padiglione è promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea, commissario Onofrio Cutaia). Si intitola «Storia della Notte e Destino delle Comete» e si interroga sul rapporto tra sviluppo sostenibile, fine della società industriale, etica del lavoro e profitto.

Sembra di entrare in un film di David Lynch: da una superfetazione abusiva si ha accesso, nell’oscurità e nel silenzio esplicitamente richiesto, in una gigantesca fabbrica dismessa. Ci sono una bacheca e un macchinario obsoleto che scandisce la vita degli operai con timbratura del cartellino, c’è una betoniera che sembra una escrescenza tumorale, lamiere, piastrelle corrose e istruzioni appese al muro sui comportamenti che gli operai devono tenere… ma non c’è più nessuno: una radio anni Settanta trasmette Senza fine. Ti aspetti di incontrare l’assassino o qualcuno nascosto nel buio, ma non c’è proprio nessuna figura.

Grandi aspiratori pendono dal soffitto, ma non sono collegati più a nulla. Allora sali una scala di lamiera, apri una porta che cigola e raggiungi il salottino con quelle pareti beige e la camera da letto anni Sessanta del «vecchio» padrone delle ferriere, ma non c’è neanche lui. Non c’è nemmeno il letto, solo le reti, in una teatralità un po’ spoglia che fa pensare a Ermanno Rea. Allora scendi dall’altra parte e trovi allineate decine di macchine per cucire senza cucitrici che sembrano quei quadri ottocenteschi di Angelo Morbelli, in particolare Il pio Albergo Trivulzio, ma senza manichini o esseri umani. Le pareti, fintamente scrostate, sono frutto di una complessa elaborazione.

Si superano motori sospesi, trabattelli e si arriva a un molo di imbarco: ci saranno qui dei morti galleggianti? No, lucine tra il buio, che sono forse acetilene, stelle oppure lucciole. Ecco, ci siamo: Pier Paolo Pasolini, nell’anniversario. «Darei l’intera Montedison per una lucciola», scrisse PPP nel polemico articolo Il vuoto del potere in Italia («Corriere della Sera», primo febbraio 1975) e queste sono centinaia di lucciole. «Oggi che la Montedison se ne è andata — dice Eugenio Viola — e con essa il grande sogno industriale italiano, il ritorno delle lucciole sospese sulla distesa d’acqua allude sì alle conseguenze delle catastrofi ecologiche all’orizzonte ma anche il deflagrare, come nella tragedia greca, di un elemento catartico».

Questo lavoro brutalista partecipa a una logica di macro-occupazione degli spazi che caratterizza le più significative esposizioni di questa Venezia post-Covid, da Piazza Ucraina al Padiglione Usa

A questo punto il visitatore può uscire a riveder il cielo, lasciandosi la fuliggine industriale alle spalle.

Questo allestimento ambientale è uno sguardo dal passato, ma realizzato con oggetti e reperti di archeologia industriale che si usavano fino a ieri. «Sì, non li ho cercati in vecchi depositi: le macchine da cucire, per esempio, erano in uso fino adesso in una fabbrica di Mondragone», racconta Gian Maria Tosatti. E così anche l’arredo del proprietario che dall’alto sorveglia: «Testimonia il sogno infranto di passare la fabbrica di generazione in generazione». La fine industriale era ineludibile? «No, dipende dalle scelte che si fanno», la storia non è l’effettualizzarsi di un destino già scritto e l’arte è specchio di quanto avviene oppure è messa in guardia o progetto di quello che può essere. L’artista, come diceva Anna Maria Ortese, è una forza del passato ma è un uomo del futuro, le sue sono «premonizioni», dice Tosatti. Tiresia-Tosatti ci fa dunque attraversare un incubo del recente passato industriale concludendo con una luce di speranza anche se non si sa bene dove andarla a cercare.

Questo lavoro «brutalista» partecipa a una logica di «irruzione» e di «macro-occupazione» degli spazi che caratterizza le più significative esposizioni di questa Venezia del post-Covid. Parliamo della irruzione di Piazza Ucraina ai Giardini, di quella di Simone Leigh al Padiglione Usa (diventato capanna), quella di Anselm Kiefer nella Sala dello scrutinio di Palazzo Ducale con le sue magniloquenti e materiche opere che pervadono l’intera sala con l’odore di vernice, quella di Anish Kapoor a Palazzo Manfrin (che l’artista ha acquistato) con colate esondanti di lava rossa (è silicone) tra le stanze e un’altra installazione industriale chiamata Symphony for a Beloved Sun nonché, infine, dell’esplicita rivincita di «ciò che è grezzo», materico e di grandi dimensioni di Bosco Sodi installato a Palazzo Vendramin Grimani Fondazione dell’Albero d’oro. C’è una violenza della materia che rivendica una supremazia sul digitale, sugli Nft, presenti solo nel Padiglione dell’esordiente Camerun. Il digitale è scomparso, semmai interessano le sperimentazioni e le acrobazie della mente, con Human Brains alla Fondazione Prada e con The Human safety net, il grande spazio pubblico nel sottotetto delle Procuratie messo a disposizione dalle Generali dopo l’intervento di David Chipperfield: ma siamo alla scienza più che all’artisticità.

Il gigantismo brutalista di Tosatti, Kiefer e Kapoor può essere letto anche come un tentativo inverso a quello di Cecilia Alemani con il suo «Latte dei sogni»: qui non si sogna, non si offrono chance, si rivendica il «grande», forse il maschile, anche se violento come i proiettili di Kapoor all’Accademia (Shooting into corner), come le retoricamente polverose macchine di Tosatti, come il ferro e la materia densa di Kiefer che va a coprire Tintoretto. Per il loro effetto disturbante ricorderemo più queste grevi presenze piuttosto che i video anche scandalistici, tipo quello Adina Pintilie del Padiglione Romania. Sarà, comunque, anche l’anno del Padiglione Ucraina che nessuno avrebbe visitato (data la posizione), ma che la violenza materiale della guerra pone al centro: The Fountain of Exhaustion dell’artista Pavlo Makov sarà tra le installazioni più viste. L’opera può essere venduta per donare fondi per l’Ucraina. Makov ha dichiarato che «non intende incontrare alcun artista russo». Quanto al Padiglione russo chissà quando lo rivedremo.