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 2022  aprile 21 Giovedì calendario

Pacifico ha scritto un romanzo. Intervista

«C’è una strada in ogni uomo, un’opportunità», dice un verso di Ti penso e cambia il mondo, una delle più note canzoni il cui testo è firmato da Pacifico, portata al successo da Adriano Celentano. Ben rappresenta il memoir familiare che lo stesso Pacifico, nome d’arte di Luigi «Gino» De Crescenzo, porta in libreria oggi, dal titolo Io e la mia famiglia di barbari (La nave di Teseo, pagg. 174, euro 18). Nato e cresciuto a Milano, classe 1964, musicista, cantautore due volte a Sanremo, autore per i maggiori artisti italiani – tra cui Vanoni, Noemi, Malika Ayane, Bocelli, Zucchero, Venditti, Mannoia e molti altri – e scrittore, Pacifico ha le sue radici al Sud. Figlio di Pia e Guido, emigrati a Milano in cerca di lavoro, e membro di una vera tribù – «Una sessantina di persone legate dal sangue, dal primo grado, che si ritrovano per feste e ricorrenze» che nel libro denomina ironicamente «I Campanici» e di cui narra l’epopea, l’artista delinea qui proprio la nascita di quella strada e di un’opportunità di futuro. 
Divertente, con lampi di intenso struggimento, questa autobiografia familiare fissa, con leggerezza e amore per la vita, l’incantesimo di un Paese in accelerazione dopo il boom economico ed è al contempo un passaggio di testimone generazionale. 
Come le è venuto in mente di narrare la saga dei «Campanici»?
«Non tutti siamo genitori, ma siamo tutti figli: l’innesco è venuto da mia madre. Un torrido pomeriggio di luglio di un paio di anni fa mi ha raccontato di sua madre un aneddoto che ancora non conoscevo. Anna, mia nonna, per arrotondare rammendava orli delle divise dei carabinieri, i quali, sapendo che aveva la passione per l’opera, le regalavano i biglietti. Lei si portava a teatro la figlia di cinque anni, mia madre: in maniera rocambolesca la faceva entrare e la teneva tra le gambe. Una sera non riuscì a portarla in bagno in tempo e mia madre fece la pipì all’opera. Di mia nonna, morta a 40 anni, è rimasta solo una fototessera tutta scorticata: quel pomeriggio mia madre mi ha chiesto di scrivere di lei».
Parlare della propria famiglia non è mai facile, ma qui c’è anche parte della storia di un Paese.
«I ricordi sono un po’ trasformati, ma può darsi che qualcuno si risentirà, anche se lo spirito è di letizia e gratitudine verso questa famiglia enorme. C’è anche la rievocazione di una possibilità di sviluppo che per i miei coincideva con la loro gioventù: il Nord. A Milano trovi lavoro al mattino, ti licenzi a mezzogiorno e al pomeriggio trovi lavoro di nuovo, diceva mio padre e rievocava le luci della città come fossero quelle di Times Square. Il lavoro era il Sacro Graal, garantire un avvenire ai figli era tutto».
C’è anche lo spirito di una cultura del Sud che vuole sopravvivere in trasferta.
«La gallina per il pranzo domenicale, che mia zia confinava in bagno e diventava ostile quando entravi. I pranzi con lo stesso menu invariato nei decenni, anche con i valori del sangue sballati, menu in cui qualche parente di terzo grado tentò di introdurre riso e latte, finché la pietanza non venne rigettata. Io stesso, che ero un ragazzo di periferia, diverso da un milanese di città, quel tipo di cultura l’ho guardata con affetto, anche se a volte mi imbarazzava, e con appartenenza, inevitabilmente».
Perché barbari, allora?
«Perché erano un’armata Brancaleone che, anche se non aveva un progetto di invasione, arrivava a Milano con le auto schiacciate sotto lo smottamento del portabagagli, coi tiranti che sventolavano come bandiere dell’essere del Sud, o che tirava fuori la torta al cinema, nell’intervallo, in spregio al venditore di gelati. Certo erano barbari con stima per le tribù del Nord: Quando vai alla macchinetta del caffè devi pagare per tutti, diceva mio padre. E anche: Devi lavorare il doppio, perché vieni dal Sud. Lui lavorava sedici ore al giorno. E poi avevo questa foto in testa, di tutta la famiglia in vacanza, in una località di grido tipo Forte dei Marmi: in cinquanta, stipati sotto due soli ombrelloni».
E quando hanno saputo che voleva fare il musicista? 
«Ci fu il grande momento di passaggio in cui io, laureato a Scienze politiche, rifiutai un posto alla Banca d’Italia: sono diventato autonomo a 40 anni. Mio padre aveva grande timore per la mia scelta, ma poi mi portò in un negozio di strumenti, sfidò il commesso che lo guardava come dire Non è roba per voi, fece un millepiedi di cambiali e mi comprò una Stratocaster, che ho ancora». 
Il suo successo è arrivato tardi, ma i Campanici se lo aspettavano.
«Mia madre introdusse la musica in casa, tutta stipata nel cavallo di Troia di un pianoforte. Mio padre trovò sull’elenco telefonico – esisteva, posso garantire, l’ho sfogliato – il numero di Virginio Savona del Quartetto Cetra. Rispose credo Lucia Mannucci e glielo passò. Mio padre attaccò a parlargli di questo grande artista misconosciuto che ero. Virginio, avanti con gli anni e disturbato nella quiete domestica, lo liquidò dicendogli la verità, e cioè che dovevo darmi da fare da solo senza affliggere nessuno. Quando torno a Milano da Parigi, a volte la sera passo dal cimitero di Corsico, dove è sepolto mio padre, tiro giù il finestrino e faccio partire due canzoni per lui. Per me è un appuntamento cui non rinuncio».