il Giornale, 21 aprile 2022
Intervista a Marina Berlusconi
«Certo che ci sono tutti i motivi per essere soddisfatti, i risultati 2021 della Mondadori sono davvero eccellenti. Ma è difficile festeggiare in un momento così cupo, tra una pandemia epocale e una guerra feroce quanto assurda. La reazione migliore è continuare a fare bene il nostro lavoro. Perché, e, mi creda, lo dico senza alcuna ingenuità e senza alcuna retorica, in una guerra come quella che Putin ci ha imposto anche la cultura, anche i libri possono fare la loro parte». In vista dell’assemblea che il 28 aprile è chiamata ad approvare i conti 2021 della Mondadori, Marina Berlusconi, presidente della casa editrice e di Fininvest, parla dei risultati aziendali ma, come tutti, ha sempre davanti a sé l’orrore dei massacri in Ucraina. Della guerra, però, osserva anche gli effetti che, da una parte, si stanno trasformando in duri contraccolpi sull’economia e sul modo stesso di fare impresa, dall’altra, dice, «aumentano le responsabilità di un editore».
Comunque, intanto, portate a casa un anno più che positivo
«In effetti i conti del 2021 sono molto buoni. Aumentano ricavi e margini, un utile di 44 milioni ci fa tornare al dividendo per la prima volta da dieci anni. E se non considerassimo le acquisizioni del 2021, investimenti importanti a partire da De Agostini Scuola, il nostro debito, che nel 2013 superava i 360 milioni, oggi non esisterebbe più. Anzi, avremmo una liquidità di 37 milioni. E sarebbe la prima volta in 15 anni».
Le ultime acquisizioni confermano che la svolta della Mondadori sui libri è definitiva.
«È stata proprio la nostra linea strategica, il ritorno al core business dei libri, a permettere questi risultati e a restituirci questa solidità, ovviamente senza sottovalutare l’attenzione allo sviluppo nel digitale. Nel 2012 i libri rappresentavano appena un quarto dei nostri ricavi, mentre oggi sono arrivati a tre quarti e, soprattutto, producono oltre nove decimi dei margini. Sui libri abbiamo investito molto, ma in neppure dieci anni la nostra redditività è aumentata di quattro volte. E non intendiamo fermarci qui».
E Mediaset?
«Mentre sono impegnati nelle grandi aggregazioni europee della tv, mio fratello Pier Silvio e la sua squadra continuano a fare davvero un grande lavoro. Nel 2021 l’utile di Mediaset è più che raddoppiato, a 374 milioni. I palinsesti sono ricchi e gli ascolti reagiscono ottimamente. E il primo trimestre 2022 sarà il settimo consecutivo di crescita per la raccolta pubblicitaria. Insomma, è evidente che davanti ai disastri della pandemia il nostro Gruppo ha risposto molto bene. Ora, però, la sfida diventa molto più complicata».
Con la guerra il quadro è drasticamente peggiorato. Cambiano anche le vostre previsioni sul 2022?
«Le nostre stime erano e al momento restano positive, anche se già prima che la Russia attaccasse avevamo dovuto affrontare l’incremento dei costi dell’energia e delle materie prime, come la carta. Noi su questi temi come sempre ci impegneremo al massimo, ma mi auguro che anche il governo, che nella pandemia ha fatto cose buone per la cultura, vorrà avere un ruolo attivo. Purtroppo oggi l’impatto della guerra non è calcolabile. Sul piano economico, sia chiaro, perché su tutti gli altri piani ogni giorno che passa l’impatto si fa più spaventoso. Resteranno cicatrici indelebili».
Che cosa la preoccupa di più, da imprenditrice?
«L’incertezza del futuro. All’inizio pensavamo che il balzo dei prezzi di energia e materie prime si sarebbe esaurito in una fiammata, ma ora non sembra più così. E, più in generale, l’inflazione pare destinata a durare. Per non parlare della volatilità finanziaria, dell’insicurezza sui tassi d’interesse, o del ripiegamento della globalizzazione, che oggi spinge tante produzioni a tornare in Europa e in Italia dai mercati a basso costo. È un crollo generalizzato di certezze che alle imprese impone scelte difficili, svolte complesse, nuovi modi di produrre. Chi può dire se tutti questi cambiamenti saranno momentanei, stabili, definitivi? Da editori, poi, sentiamo un peso in più».
Quale peso?
«Ogni imprenditore deve sempre pensare ai suoi conti, alla comunità in cui opera, alla qualità del prodotto... Un editore, però, ha un supplemento di responsabilità perché produce cultura e valori, che di questi tempi sono gli anticorpi contro le spinte autoritarie e illiberali. Se mi passa il paragone, è un po’ come se fossimo il sistema immunitario della democrazia. Per questo, da editore, trovo sia inevitabile una scelta di campo».
Vorrebbe mettere l’elmetto anche alla cultura?
«Certo che no. So perfettamente che in nessuna vicenda umana il bene e il male stanno da una parte sola, ciascuno ha ragioni da addurre e torti da lamentare. Però i distinguo che troppo spesso sento fare mi paiono assurdi o strumentali. Qui non possiamo che stare da una parte precisa: quella di un popolo aggredito e dei valori del mondo democratico cui appartiene, e contro un aggressore che in realtà ha dichiarato guerra a tutto l’Occidente, alla sua identità e alla sua cultura».
Ma proprio la cultura, e quindi anche una casa editrice come la Mondadori, per loro natura non devono tenere conto di tutte le voci?
«E infatti nessuno ha intenzione di censurare nessuno. Non dico il povero Dostoevskij, che peraltro Putin avrebbe già seppellito a vita in Siberia. Ma nemmeno i più insinuanti paladini delle ragioni degli invasori. Che poi, è inutile girarci attorno, in realtà più che apprezzare Putin detestano l’Occidente, a cominciare dagli Stati Uniti. Quel che voglio dire, senza tirare in ballo scelte editoriali che libere sono e libere devono restare, è che oggi più che mai serve prendere posizione a favore dei nostri valori comuni, della cultura su cui si fondano. Dobbiamo ritrovarne l’orgoglio».
Vasto programma, direbbe il generale De Gaulle
«Citazione per citazione, le rispondo con un altro generale, Pericle l’ateniese, uno che di democrazia e di guerre se ne intendeva. Una sua frase m’è rimasta in mente dai tempi del liceo: diceva che il segreto della felicità è la libertà, ma il segreto della libertà è il coraggio. Ecco, io credo che dobbiamo avere il coraggio di scelte coerenti, il coraggio di dire ai quattro venti – e il ruolo della cultura in questo è fondamentale – che il sistema occidentale basato sulla libertà e sulla democrazia avrà mille limiti e difetti, ma ha sicuramente molti più pregi, a cominciare dal fatto che lo si può criticare anche aspramente senza il rischio di finire in galera. A Mosca e a Pechino succede lo stesso? Putin addirittura ha appena vietato quella che era stata una conquista storica dopo il crollo dell’Urss, e cioè il diritto di equiparare stalinismo e nazismo, che significa in altre parole il diritto di condannare ogni forma di totalitarismo. In Russia non si può più fare, altrimenti rischi la galera».
C’è voluto un mese, però, prima che suo padre si decidesse a condannare Putin.
«Mio padre ha fatto e ha detto le cose giuste al momento giusto. La sua posizione è sempre stata netta. Vedi il voto di condanna dell’invasione al Parlamento europeo, o il sostegno alla politica filo-atlantica del governo Draghi. O la lungimiranza che per tanti anni ha fatto di lui il più convinto sostenitore della necessità di un esercito e di una politica estera comuni dell’Unione, e il primo a denunciare i pericoli del neoimperialismo cinese e di un abbraccio con la Russia. Ricordiamoci anche che, da premier, vent’anni fa Silvio Berlusconi era addirittura riuscito a convincere Putin e George W. Bush a firmare l’accordo di Pratica di Mare, premessa per l’ingresso della Russia nella Nato. Se fosse stato possibile continuare a percorrere quella strada, oggi forse non saremmo qui a parlare di guerra. Il fatto è che l’Occidente in questi vent’anni ha perso terreno. E oggi rischia di perdere la sua anima».
L’Occidente è in difficoltà, è evidente. Ma contro l’invasione russa Stati Uniti ed Europa finora sono uniti.
«La guerra però ha mandato in frantumi un’illusione: oltre a non essere esportabili, come qualcuno aveva sperato, la democrazia e le sue conquiste non sono affatto un patrimonio acquisito, un diritto naturale sempre e comunque a nostra disposizione. Sono invece qualcosa di fragile, che ogni giorno va difeso con le unghie e con i denti. Da chi le contrasta dall’esterno ma anche da chi, più o meno consapevolmente, ne mina dall’interno le fondamenta».
Non le pare una visione un po’ troppo apocalittica, quella di un Occidente debole e minacciato su tutti i fronti?
«Mi scusi, ma davanti alle nostalgie imperiali di Putin, alla bulimia espansionistica della Cina o al terrorismo islamico, che per strade diverse combattono il nostro sistema, che cosa ha fatto il mondo libero? Per troppo tempo si è limitato a balbettare, in preda a incomprensibili complessi d’inferiorità. Anzi, ha fatto di peggio: ha scoperto di essere la causa di tutti i mali, ha iniziato a processare la sua stessa storia, a mettere al bando pezzi della sua cultura e a flagellarsi per espiare chissà quali colpe».
Beh, la nostra storia è fatta anche di inaudite violenze, sangue, sfruttamento.
«E chi lo nega? Ma ogni cultura è figlia della sua storia, di tutta la sua storia. Che non può essere passata al setaccio, tenendo solo le cose che ci piacciono. Così come non si può trasformare la sacrosanta tutela delle minoranze in una dittatura di queste stesse minoranze. Ecco la cancel culture: la dimostrazione – ahimè – che il peggior nemico dell’Occidente alla fine è diventato proprio l’Occidente».
Non è la prima volta che lei critica la cancel culture. Quali sono le responsabilità che ha in questa guerra?
«Non vorrei esagerare, ma la cancel culture agisce un po’ come una quinta colonna, aggredisce da dentro il nostro patrimonio culturale e la libertà di pensiero e di espressione. Di fronte a questa pericolosa variante del politicamente corretto, da editore, io sento una responsabilità in più. Da editore e anche da madre».
Perché anche da madre?
«Mandare al rogo la nostra storia, e di conseguenza la nostra identità, rende pericolosamente fragili i nostri figli: a differenza di noi, che dovremmo avere gli strumenti per difenderci da questi furori integralisti, loro sono più indifesi, rischiano di crescere senza capire questo scontro di valori e senza percepire in pieno l’importanza degli ideali che fondano le nostre democrazie. Rischiano soprattutto di abituarsi all’idea di una società che potrebbe essere meno libera. È un futuro che rifiuto con tutta me stessa. Anche per questo sono convinta che la difesa dei nostri princìpi richieda una scelta di campo netta e decisa. Lo dobbiamo a noi stessi, ma ancor di più lo dobbiamo ai nostri figli».