la Repubblica, 21 aprile 2022
Mosesson racconta la biografia ufficiale del dj Avicii
In anteprima un estratto della sua biografa “Tim”“Tim” è il libro di 384 pagine del giornalista Mans Mosesson che racconta la biografia ufficiale del dj Avicii morto suicida nel 2018. (a cura di Cecilia Cirinei)
La sera i conigli uscivano dalla boscaglia. Grigi e arruffati, come se avessero appena concluso una battaglia tra i pini. Poco dopo un gheppio fluttuava impassibile nel cielo e distendeva le ali nel vento in attesa dell’occasione giusta per gettarsi sulla preda. Dall’alto Tim vedeva un sacco di cose. Il profumo di aglio e rosmarino si levava nell’aria e si mescolava con il sentore dei limoni del frutteto. Un quieto ronzio proveniva dall’irrigatore della piscina.Erano passate tre settimane da quando Tim Bergling aveva ricominciato ad accogliere i propri cari intorno a sé. Era seduto sul tetto del centro di riabilitazione, su una sdraio che il personale lo aveva aiutato a issare lì in cima, sopra le tegole rosse. Nella foschia del Mediterraneo scorse in lontananza l’isola, quella che la gente raggiungeva in traghetto per fare snorkeling e dimenticare la sbronza un attimo prima di buttare giù la prima pasticca della serata e ricominciare da capo. Ora però era autunno. I turisti erano tornati a casa, il Privilege, lo Space e il Pacha avevano terminato la stagione.
Si accorse che l’estate del 2015 era trascorsa in un’unica nebbia oscura. Era rimasto nella villa bianca di Ibiza a stressarsi perché le canzoni non erano mixate in modo abbastanza pesante e perché la casa discografica voleva che andasse a Londra per delle interviste. Stories doveva diventare il seguito del primo album, quello che due anni prima aveva trasformato Tim Bergling da dj acclamato nelle discoteche a fenomeno mondiale del pop.
Il suo corpo aveva smesso da tanto tempo di funzionare a dovere. E nell’ultimo anno, dopo l’operazione, sentiva qualcosa crescergli nello stomaco. Era ossessionato da quella massa. Più ci pensava, più la sentiva distintamente. Come un tumore che si nutriva di lui. E mentre la massa si ingigantiva lì dentro, lui suonava ai festival estivi in giro per l’Europa, e ogni domenica riempiva Ushuaïa, il locale house più di tendenza di Ibiza. Quando, dopo l’ultima serata della stagione, si era svegliato nel pomeriggio, era convinto che sarebbe tornato a casa, a Los Angeles. Invece aveva trovato tutti riuniti nella villa. C’era suo papà Klas, e da Stoccolma erano arrivati il manager Arash e suo fratello David. E ovviamente gli amici d’infanzia che per un anno l’avevano seguito ovunque. Gli avevano spiegato che erano preoccupati (...). Avevano pianto, distrutti. Alla fine Tim aveva acconsentito a farsi ricoverare nel centro di riabilitazione, più che altro per zittire le loro lamentele. I primi giorni, durante la disintossicazione, aveva perlopiù dormito. Poi il responsabile terapeutico Paul Tanner gli aveva consigliato di scrivere (...). Le parole gli uscivano a fatica. Aveva vissuto così a lungo nel soffice inganno dello stordimento che sulle prime scrivere era stato difficile. Però ne coglieva l’importanza: dare un nome alle esperienze rendeva più facile parlarne, lo aiutava ad avere uno sguardo sulla vita, che lo aveva condotto in quel luogo nel settembre 2015. Passava le notti a scrivere. Raccontava della sua infanzia, di come aveva scoperto la musica e di come la sua carriera era decollata. Scriveva del suo manager Arash e delle fidanzate (...). Solo adesso si rendeva conto di quante cose aveva messo da parte. Si era costretto ad andare avanti per così tanto tempo che quella era diventata la quotidianità. (...) Per molto tempo aveva oltrepassato i limiti, vivendo nel dolore. Quello fisico dello stomaco, ma anche quello psicologico. Non si era soltanto schiantato contro il muro, lo aveva attraversato, diverse volte. Si era trovato ai confini con la morte: era questa la senzazione (...).