La Stampa, 21 aprile 2022
La crisi di Netflix
Per la prima volta da dieci anni a questa parte Netflix ha perso abbonati, duecentomila in tre mesi; e prevede di perderne altri due milioni nel prossimo trimestre. Per gli investitori, che si aspettavano una crescita, è stata una botta e il titolo a Wall Street ha perso il 37 per cento, praticamente circa 50 miliardi di dollari in valutazione. L’ultima volta che c’era stata una giornata così nera era l’ottobre 2004 e Netflix ancora distribuiva Dvd con un abbonamento mensile. Si era sparsa la voce che Amazon stesse entrando in quel settore e le azioni avevano perso il 40 per cento. Una vita fa. Da allora era stata una scalata che pareva inarrestabile, fino alla vetta, dove Netflix, va detto, sta ancora oggi: 221 milioni di abbonati sono un numero enorme. Sono persone che pagano ogni mese un canone non trascurabile per accedere ad un servizio via internet. Quanti altri possono vantare un numero così alto? Il New York Times, che ha il record di abbonamenti fra i giornali, ne ha circa 7 milioni; Spotify, leader fra i fornitori di musica, è intorno ai 170 milioni (se consideriamo solo i paganti, ma su questo punto ci torneremo). Netflix insomma non è soltanto in cima ad una ideale classifica fra le aziende che riescono a farsi pagare un abbonamento per un servizio online; Netflix ha creato quel mercato quando nessuno o quasi ci credeva.
Non era affatto scontato quando tutto iniziò, nel 1997. Anzi, per la verità Netflix partì, come abbiamo visto, come servizio di distribuzione di film in Dvd. Anche quella era una innovazione. In un mondo dove per affittare un film dovevi recarti in un negozio e sfogliare un catalogo di carta, Netflix proponeva un sito web e un abbonamento mensile tutto compreso in modo da evitare che un ritardo nella riconsegna del film comportasse un aumento del prezzo stratosferico. Era stata questa l’idea dei due fondatori Marc Randolph e Reed Hastings: superare il modello di business del campione di mercato dell’epoca, Blockbuster, che aveva disseminato il pianeta di negozi. E quanto si divertirono anni dopo, Randolph e Hastings, nel raccontare l’incontro a Dallas con il gran capo di Blockbuster che quasi scoppiò a ridere quando gli venne proposto di comprare quella start-up per 50 milioni di dollari. Rifiutò, ovviamente, e Blockbuster è affondata poco dopo. Non per i Dvd ma per lo streaming. Nel frattempo infatti Randolph aveva lasciato la società e fu Hastings a puntare tutto su questo nuovo mercato («per questo ci chiamiamo Netflix», diceva, «altrimenti ci saremmo chiamati Dvd-per-posta»). L’idea in realtà era il download. Dopo due anni di lavoro e investimenti nel 2005 era tutto pronto quando il successo di YouTube e la diffusione della banda larga fecero cambiare progetto. Il pubblico, fu l’intuizione, non voleva davvero scaricarsi un film sul computer, voleva soltanto vederlo. Lo streaming. Nel 2007 il lancio del nuovo servizio. Un trionfo. Seguito da una seconda novità: la produzione, prima di serie tv ("House of Cards” il primo leggendario successo) e poi di film. Con una particolarità: l’uso di sofisticati algoritmi in grado di dire prima se un certo prodotto avrebbe avuto successo.
Netflix così è diventato un modello del futuro, ma poi qualcosa è cambiato. Qual è il problema? Che nel mercato dello streaming di video sono arrivati in tanti: ci sono Apple ed Amazon, forti di una capacità di spesa pressoché infinita per via dei profitti che fanno in altri settori; e c’è la Disney, forte di un catalogo impareggiabile e di una capacità produttiva con pochi rivali. Insomma quel mercato che Netflix ha immaginato e poi creato si è improvvisamente affollato. La torta non è piccola ma va divisa in tante fette. La piattaforma di Disney, lanciata nel 2019, ha già 130 milioni di abbonati, Amazon Prime Video 117, Apple Tv poco meno di 30; e ce ne sono altri, in ogni Paese.
La concorrenza si sente anche sul settore produttivo. Emblematico quello che è successo all’ultima notte degli Oscar, un riconoscimento che Hastings ha sfiorato negli ultimi anni con film bellissimi. Ma qual è stata la prima piattaforma streaming a vincere la statuetta per il miglior film? Apple, con CODA, che neanche ha prodotto, ma di cui ha comprato i diritti all’asta battendo Netflix.
Che fare? Cambiare di nuovo. Per la terza volta. Provare, forse, la strada battuta da Spotify che ha abbonati premium, ed altri, che invece subiscono la pubblicità e hanno qualche servizio in meno. Nel suo confronto con gli azionisti l’altro giorno Hastings ha detto: «Chi ci ha seguito finora è contrario alla complessità delle pubblicità ed è invece un sostenitore della semplicità del modello degli abbonamenti. Ma io sono un sostenitore delle scelte dei consumatori e nel consentire di far pagare un prezzo inferiore e tollerare un po’ di pubblicità a chi lo vuole».
Nelle stesse ore l’altro fondatore, Randolph, che ormai veste i panni di guru dell’innovazione, ha scritto su Twitter: «In tutte le storie di successo gioca un ruolo la fortuna. Le persone pensano che ogni start-up di successo dipenda solo dal genio dei suoi fondatori. Ma conta moltissimo anche la fortuna». Ecco, Hastings nella sua vita ha dimostrato di sapersi reinventare infinite volte, da quando da ragazzo si arruolò nei Peace Corps, a quando girava l’Africa con dieci dollari in tasca insegnando matematica nei villaggi; ha studiato, ha rischiato, ha creato. Ha 61 anni. È un mito. Ma adesso gli servirà un po’ di fortuna per reinventarsi una volta ancora. —