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 2022  aprile 20 Mercoledì calendario

"LA MIA PIZZA E’ PER TUTTI, ANCHE PER SALVINI. DIECI ANNI FA AVEVO DETTO CHE I LEGHISTI NON ERANO GRADITI" - GINO SORBILLO: "DA NAPOLETANO RISPONDEVO A PRESE DI POSIZIONE FORTI DELLA LEGA NORD CONTRO IL MERIDIONE" – "SONO UNO SCUGNIZZO DEI VICOLI. ANNI FA A NAPOLI IN VIA DEI TRIBUNALI, DOVE C’E’ IL MIO LOCALE, ALLE 21 C'ERA IL COPRIFUOCO, ERA ZONA DI SPACCIO. MI SONO OPPOSTO A OGNI RICATTO. IO IN POLITICA?  HO AVUTO UNA PICCOLA ESPERIENZA CON LE PRIMARIE DEL 2011 COME SINDACO DI NAPOLI E MI È BASTATA. QUEL MONDO NON FA PER ME…" -

Per chi arriva a Napoli è d'obbligo andare in via dei Tribunali a mangiare la pizza (la più richiesta è la classica Margherita) da Gino Sorbillo. Il suo storico locale, aperto nel 1995, lo riconosci dalla lunga fila di gente che, a pranzo e a cena, aspetta il turno per entrare ad assaggiare la pizza napoletana "vera, autentica, per tutti". Gino ha 47 anni, ma la fama dei Sorbillo inizia nella stessa via nel 1935 con la pizzeria del nonno, dove è cresciuto anche papà Salvatore.

«Mamma - racconta Gino - faceva la sarta e papà, 19° di 21 figli, è stato un pizzaiolo capace di salvaguardare l'antica arte tramandandola ai figli». Coraggio, passione (senza quella non puoi lavorare 15 ore al giorno), creatività hanno fatto di Gino un ambasciatore della pizza nel mondo, ma anche un comunicatore in tv e un guerriero in tante battaglie. «Prima della pandemia - mi spiega - in via dei Tribunali sfornavo oltre 1.500 pizze al giorno. Poi il buio totale e ora, con la fine dell'emergenza, siamo intorno alle 1.000. Ma con la guerra tra Russia e Ucraina la strada è tornata in salita, i prezzi delle materie prime sono lievitati...».

Lei ha rivisitato la figura del pizzaiolo. «Non dimentico il punto di partenza: sono uno scugnizzo dei vicoli di Napoli, lì c'è la mia identità, il mio coraggio, a volte anche la paura. A 22 anni avevo già le idee chiare, ero convinto che si potesse lavorare molto sulla voglia di riscatto di questo mestiere e di questo prodotto. Volevo raccontare la pizza come forma espressiva ed artistica di una città, addirittura di un quartiere. Un tempo fare il pizzaiolo era un mestiere di ripiego, senza riconoscimenti.

Nel ristorante-pizzeria contava lo chef, il pizzaiolo era il jolly per far quadrare i conti del locale. Ho voluto restituirgli dignità, eliminando lo stereotipo del pizzaiolo acrobata, Pulcinella o chiuso ed ombroso. Ho innovato la tradizione senza sconvolgerla con sofisticazioni, salse o salsine. La mia soddisfazione? Servire una Marinara da 4 o 5 euro ad un ultraottantenne che ne ha mangiate per una vita e sentirmi dire che nessun'altra era buona come la mia».

La pizza è stata uno strumento per far rinascere un territorio. «Da subito io e la mia pizza siamo stati un simbolo di legalità, opponendoci ad ogni meccanismo di oppressione da parte della criminalità. Un'attività commerciale con la schiena dritta può diventare un faro sul territorio, illuminarlo ed avviare una catena virtuosa. Le minacce non si accettano, si denunciano appena arrivano.

Anni fa in via dei Tribunali alle 21 c'era il coprifuoco, era zona di spaccio a cielo aperto. Le persone per bene ci stavano alla larga, non riuscivo a portarci neppure gli amici di scuola."Non ci verremo mai, è uno schifo. È il regno dei delinquenti", mi dicevano. Ioli ho sfidati: "Il mio entusiasmo, la mia onestà, la mia passione e il mio prodotto vi faranno ricredere". Occorreva che qualcuno si muovesse per primo, poi gli altri mi hanno seguito. E la zona buia è diventata piena di luce».

Ha avuto l'intuito di credere nel potere della comunicazione. «Ho sempre cercato il contatto tra me pizzaiolo al banco e chi entrava nel mio locale. Li ho sempre accolti con lo sguardo, facendo capire che li avevo notati e volevo farli stare bene. Quei primi anni sono stati il mio ring, il mio campo d'allenamento che mi ha poi portato ad esportare la pizza anche fuori da Napoli, senza tradirla».

S' iniziò a parlare di lei come di un pizzaiolo gentile e risoluto. «Non c'erano ancora i social ma nel 2000 la mia pizzeria era già inserita nei percorsi turistici come tappa irrinunciabile per chi visitava Napoli. Arrivarono anche le prime interviste, i programmi televisivi, centinaia di documentari sulla pizza che finirono pure in Giappone ed Australia. Tornò in auge persino la pizza fritta, fino ad allora conosciuta solo dai napoletani dei bassi».

Ha fatto crescere la sua attività in una zona in pugno alla camorra. «Ho fatto il militare nell'arma dei Carabinieri. Camminavo in divisa in via dei Tribunali, volevo far capire da subito le mie idee. Ero solo un ragazzino ma lanciavo chiaro il messaggio che non mi facevo intimidire e sarei stato un messaggero di legalità, proprio attraverso il mio lavoro, in un territorio gestito dalla criminalità».

Nel 2014 le hanno incendiato il locale, nel 2019 è stata la volta di una bomba carta e poi tante intimidazioni. «Sì, mi sono capitate cose strane. A volte si è fatta chiarezza, molte altre no. Nella guerra notturna delle baby gang arrivano segnali precisi alle attività commerciali. Non ho mai abbassato la guardia: in caso di problemi, io denuncio. Do fastidio perché faccio capire quotidianamente che ognuno deve pretendere, e sottolineo pretendere, di vivere il proprio territorio, il proprio spazio senza che gli vengano rotte le scatole. Se non cedi alla debolezza o alla paura, ma sei incorruttibile puoi fare impresa in ogni parte d'Italia: puoi diventare uno chef stellato o un artista anche a Secondigliano».

Opporsi ai clan può mettere a rischio la sua famiglia. «Sono dell'idea che lo Stato c'è. Se lo vuoi, lo Stato c'è. E questa certezza mi dà fiducia e forza, so che non sono solo. Se al primo posto metti la paura, hai perso in partenza».

Le piacerebbe che uno dei suoi tre figli raccogliesse il suo testimone? «Giorgia ha 18 anni e si diploma al liceo linguistico, Ludovica ne ha 14 e frequenta il classico e poi c'è Salvatore, 8 annidi vivacità. Non impongo nulla, voglio che siano liberi nelle scelte della vita. Ludovica mostra interesse, potrebbe continuare la tradizione di zia Esterina, che trascorse 63 anni in pizzeria. Amava il popolo, teneva i prezzi bassi per tutti, soprattutto per i giovani universitari».

Il suo consiglio ai giovani pizzaioli? «Devono mettere nel piatto la loro storia ed identità. La pizza è un racconto personale, non un copia e incolla. Se abiti nel Cilento, devi raccontare la pizza con i profumi, i colori e le sensazioni di quella terra. Solo così quella pizza sarà tua e avrà un valore aggiunto che io, nel ventre di Napoli, non posso avere perché sono invece contaminato da San Gregorio Armeno, dal Cristo Velato, da San Gennaro, dal mare. Si è unici quando sappiamo trasmettere emozioni».

Tra il 2010 e il 2013 ha detto più volte che da lei i leghisti non erano graditi... «All'epoca quelle provocazioni ci stavano, da napoletano rispondevo a prese di posizione forti della Lega Nord contro il Meridione. Non me la sono presa solo con loro, le mie pizze parlanti hanno spesso attaccato la casta politica che chiacchiera tanto e ci spreme troppo. Per parlamentari e senatori la mia pizza costava 100 euro. Ero giovane, sanguigno, istintivo, un po' primitivo. Negli anni ho moderato i toni e nei miei locali sono ben accette tutte le persone per bene, al di là dello schieramento politico».

Oggi ha più pizzerie a Milano che a Napoli... «Credo in una pizza democratica e senza confini, per questo mi sono spinto fino a Miami, Tokyo, Ibiza e New York. La mia 20a apertura è di poche settimane fa, a Torino. Mi piace molto il Nord, a Milano ho 4 locali e la considero la mia seconda città».

Cosa le piace dei milanesi? «Sono persone operative, organizzate, rispettose, veloci e attente ai cambiamenti. Milano è il trampolino per l'Europa e per il mondo. Se qualcosa funziona lì, funziona ovunque. Lì ho messo le radici nel 2014 e non l'ho più lasciata. Mi piace da morire, le ho anche dedicato la pizza cotoletta, con l'impasto immerso nel bianco e rosso d'uovo, passato nel pan grattato e fritto in olio caldo a 190°».

Le sue battaglie sono universali, ma c'è chi dice che le fa solo per i suoi interessi.. «Le mie battaglie sono un modo di comunicare quello che faccio e vivo, ma a Napoli è facile avere pregiudizi e diventare branchi contro qualcuno che cerca di adoperarsi in una strategia comune.

Durante la prima fase della pandemia mi sono confrontato in continuazione con oltre 200 ristoratori in tutta Italia, utilizzando i gruppi whatsapp per capire di cosa avevamo bisogno. Sono stato contattato spesso da tv e giornali e mi sono sempre fatto portavoce di ognuno di loro chiedendo il blocco dei fitti e delle utenze, un regime fiscale agevolato, lo sblocco del delivery...».

Perché è così difficile fare squadra? «Ogni volta che mi espongo, c'è sempre qualcuno che interpreta la cosa al contrario. E mi attacca sottovalutando che in pandemia il problema più grande lo tenevano le strutture più grandi. Quelle con due persone che facevano asporto e magari avevano un fitto irrisorio subivano un impatto minore rispetto a chi, come me, non ha mai fatto delivery, ha affitti esorbitanti e 20-25 dipendenti per ognuno dei 20 locali disseminati tra Italia e mondo. Ho rischiato la chiusura di 4 locali, non ce l'ho fatta a salvare quello di New York».

Ha mai pensato di entrare in politica? «Ho avuto una piccola esperienza con le primarie del 2011 come sindaco di Napoli e mi è bastata. Mi ha tolto ogni dubbio: quel mondo non fa per me. Preferisco vivere di pizze, mozzarelle, pomodori, bollicine, abbinamenti e fare godere la gente a tavola».

Una pizza per far fare pace a Putin e Zelenski? «Non me la sento di risolvere un conflitto così disumano con una pizza. La guerra Russia-Ucraina sta massacrando vite umane e mettendo in ginocchio ognuno di noi. Temo il peggio, soprattutto per il futuro dei nostri figli».