la Repubblica, 29 novembre 2021
Su "Storie meridiane. Miti, leggende e favole per raccontare l’arte" di Lauretta Colonnelli (Marsilio)
Chi sono, realmente, quelle donne di Pompei, scalze, con dei panieri sul capo colmo di terra appena scavata per far tornare alla luce reperti, e poco alla volta la città sepolta dall’eruzione? C’è una vita che precede quell’attimo: però cosa le ha portate fin lì? Il celebre quadro Fouilles à Pompéi di Édouard Sain del 1865 è una testimonianza del duro e appassionato lavoro di scavo sotto il profilo del Vesuvio, un’istantanea che restituisce anche il preciso momento storico-sociale della popolazione campana, soprattutto degli abitanti della valle dell’Irno e dell’agro nocerino sarnese che all’epoca, per fronteggiare la profonda crisi del settore tessile che li travolse a metà dell’Ottocento, decisero di rispondere all’appello dell’archeologo Giuseppe Fiorelli, che aveva necessità di manodopera per la sua grande visione di restituzione di Pompei. A guardare a fondo le opere d’arte – sia il quadro di Sain, ma anche la pensierosa e commovente scavatrice scalza di Filippo Palizzi – le domande non si esauriscono mai, la vita erompe: così il dipinto diventa il punto di inizio per ampliare la ricerca, e il procedimento, come l’ansia di soddisfare la curiosità, vanno in cerca di un numero sempre più ampio di testimonianze, giornali, telegrammi, romanzi e racconti come li ha messi insieme Lauretta Colonnelli per Storie meridiane, un volume che è un catalogo di capolavori da non smettere mai di ammirare e anche di racconti dalla suggestiva dimensione narrativa. Proprio come accade guardando Uomini che giocano a dadi, affresco pompeiano del I secolo d.C. La sequenza è cinematografica per come si sviluppa: l’immagine contiene un’infinità di fotogrammi, una storia nasce, si sviluppa, evolve. Due uomini sono seduti a un tavolo, nel retrobottega delle cauponae – le osterie del tempo –, e dopo il lancio stanno discutendo, si direbbe animatamente. A testimoniarlo i gesti insieme all’iscrizione «Exsi», ovvero la dichiarazione di aver vinto, mentre l’altro replica e carca di chiarire «Non tria dua est». Subito dopo si vede che stanno venendo alle mani. L’affresco è la parte per il tutto per raccontare, e così comprendere, come in epoca classica, a partire dall’imperatore Augusto, la febbre per il gioco fosse molto diffusa, e che ci fossero ripetuti ammonimenti da parte di Giovenale o di Cicerone verso chi era talmente accecato da corrompere anche i propri figli. Nella sequenza di opere selezionate da Colonnelli, tutte rappresentative di un Meridione identico a un forziere che non smette di abbagliare (dalle “Kreagra”, i forchettoni di Melfi del V secolo, ai vasi con giocolieri di Lipari) numerosissime sono di Napoli e della Campania: la Tomba del tuffatore a Paestum, il Vaso blu al Mann, i tanti porti dipinti da Jakob Philipp Hackert nel Settecento, gli amorini profumieri e la Venere in conchiglia di Pompei. Tante opere da cui far partire tanti sentieri di storie, e tra le più suggestive c’è quella di Thomas Jones con i suoi celebri scorci napoletani nel Settecento come Un muro di Napoli. La parete grigia sbrecciata, i panni stesi dietro la finestra chiusa, l’edera rampicante e l’accenno di un pezzo di cielo azzurro limpidissimo sono il culmine della dolce malinconia di Jones. Aveva lasciato le brume del Galles e scelto Napoli per strapparsi dal petto l’inadeguatezza che non gli dava scampo. Diceva di sentirsi fuori tempo rispetto alla sua epoca, invece guardava il dettaglio che nessuno aveva il coraggio di osservare fino in fondo. Strappò Napoli al chiasso, alla folla, mise da parte ogni eccesso per rappresentarne una rara, eppure reale anima mite, racchiusa in un’attesa silente.