il Giornale, 20 aprile 2022
Cosa vedremo alla Biennale di Venezia
L’Esposizione internazionale d’Arte della Biennale di Venezia, anno trans-pandemico 2022, ha preso la rincorsa lunga: comincia tra pochi giorni, sabato – ieri preview per la stampa – con parecchio anticipo rispetto alla tradizione. Si aggancia al ponte di Pasqua, scavalca 25 aprile e 1° maggio e arriverà fino a fine novembre, guadagnando un mese di bigliettazione sulle scorse edizioni. Giusto così: la Biennale è scalata di un anno, causa Covid, e il grande mondo dell’arte – in visita ci sono tutti, curatori di ieri e forse di domani: Maurizio Cattelan, Milovan Farronato in arancione, Christine Macel, Vincenzo De Bellis... – ha voglia di guadagnare il tempo perduto. Tutto riparte da Venezia.
La temperatura è ottimale, il cielo limpido e la città turisticamente al suo meglio, anche se gli yacht e le grandi barche lungo la Riva degli Schiavoni sono poche, e i ricchi russi non sono graditi. E la Biennale sgomita, stretta fra una pandemia e una guerra, fiduciosa nel messaggio salvifico dell’Arte. Intanto, a trenta metri dall’entrata del Padiglione centrale, un gruppo di operai venuti da lontano sta ultimando l’allestimento di «Piazza Ucraina», progettata dall’architetta Dana Kosmina: uno spazio aperto attorno a un monumento ricoperto da sacchi di sabbia come si fa in tempo di guerra per proteggere l’arte pubblica dai bombardamenti. Spazio di conversazione, incontro, dialogo e messa in discussione. L’arte può ridisegnare anche la politica?
Più «politica» nel senso di «impegnata» che storica, più curator che critica, Cecilia Alemani è la curatrice della Biennale 2022, prima donna italiana nei 127 anni di esistenza dell’esposizione veneziana e che si rifà abbondantemente sul passato ideando una mostra monstrum – 1.433 opere di 213 artisti provenienti da 58 nazioni con una quota rosa dell’80 per cento – molto femminile, molto trans, molto esotica, molto fluida. Uomo bianco etero occidentale cercasi.
Nero totale, comprese scarpe e calza Adidas, gonna di pizzo e sorriso teso dell’opening, Cecilia Alemani – il marito Massimiliano Gioni, già curatore dell’edizione 2013 a distanza di sicurezza e di rispetto – presenta la sua Biennale: «Qui ho portato opere che per me sono portatrici dei sogni e delle inquietudini del vivere odierno e che vorrei facessero riflettere il visitatore su due grandi temi: da una parte la rappresentazione dei corpi e la loro metamorfosi, compresa la relazione tra individui e le tecnologie, e dall’altra i legami che si intrecciano tra i corpi e la Terra».
Due grandi progetti – che qui si chiamano concept – e quindi due enormi spazi. Ai Giardini si sviluppa il tema del corpo in relazione al genere, la sessualità, la metamorfosi (che qui spesso fa rima con emancipazione) e la tecnologia, tra surrealismo, mondo onirico, intimità. All’Arsenale si declina il tema della relazione Uomo-Natura, fra post-umano, allarme ecologico e Artificiale.
Curioso. Nella Biennale di Cecilia Alemani non c’è spazio per il virtuale e gli Nft. Un punto a suo favore.
Milanese da anni in trasferta di lavoro a New York, 45 anni, una tesi su Georges Bataille – vorrà dire qualcosa se l’immagine guida della mostra è un occhio surrealista – Cecilia Alemani all’entrata saluta mamma, papà, amici italiani e americani e dice a tutti: «Divertitevi!».
Divertente perché capovolge la razionalità, trans-storica perché collega passato e contemporaneo, ambigua perché esalta un’identità ibrida e fluttuante, la mostra prende il titolo da un libro di favole per bambini popolato di esseri fantastici, Il latte dei sogni, scritto e illustrato dall’artista surrealista Leonora Carrington (1917-2011), spirito guida del lungo percorso. A spezzare il percorso, cinque «capsule del tempo», cioè sale tematiche che intessono corrispondenze storiche tra le ricerche delle avanguardie (con molte artiste a lungo tenute sottotraccia) e le esperienze dell’oggi. Del resto il contemporaneo acquista un senso solo se si conosce il Novecento.
Le opere sono moltissime, il catalogo è di 750 pagine (per un attimo si è temuto fosse scritto con la schwa), il labirinto in cui si sviluppa Il latte dei sogni, magico e pericoloso.
Il filo d’Arianna (un’altra donna) è in fondo la metamorfosi: come cambiamo noi, come cambia l’essere umano, come cambia il Pianeta. Si parte dai Giardini, con la grande scultura in poliestere e legno di Katharina Fritsch (Leone d’oro alla carriera), un elefante a grandezza naturale il cui realismo dissolve i confini fra ordinario e perturbante: è vero, è un mito, è un simbolo, è un sogno? Poi, da una sala all’altra, scorrono sculture che sono un po’ alieni, u po’ mostri, un po’ Transformer come quelle della rumena Andra Ursuta, i dipinti con maschere lucide dell’afroamericana Lois Mailou Jones, e poi una galleria di corpi fantasmatici, deformi, ibridi, scomposti, cubisti, surrealisti, NeoPop, cibernetici. Da segnalare la grande sala dedicata alla portoghese Paula Rego, pittrice portoghese di 87 anni, naturalizzata britannica, famosa per i dipinti basati su libri di fiabe – siamo fra il soprannaturale e il mondo Disney versione horror – e il video Maintenancer della danese Sidsel Meineche Hansen che racconta la manutenzione delle sex doll in una casa di piacere tedesca: il corpo idealizzato delle donne...
Pausa caffè (Illy, mega sponsor) e seconda tranche della mostra: l’Arsenale. L’incipit è, come ai Giardini, un’enorme installazione, Brick House, che la Alemani si è portata direttamente dalla High Line di New York: un monumentale busto in bronzo di una donna di colore la cui gonna rimanda a una casa di argilla. Il corpo e l’architettura. Dopo una lunga corsa attraverso le Corderie fra idoli in argilla (dell’argentino Gabriel Chaile), cyborg e androidi, forme di vita preistoriche (le sculture della spagnola Teresa Solar), robot (dell’austriaca Kiki Kogelnik), fiori fantascientifici (del giapponese Tetsumi Kudo)... Dovendo scegliere, segnaliamo: il lavoro di Lynn Hershman Leeson dal titolo Missing Person (una serie di stampe su specchio con ritratti fotografici di persone inesistenti, create mediante intelligenza artificiale) e le sculture sovrannaturali e biomorfiche della francese Marguerite Humeau.
Quindi? Com’è la Biennale 2022 di Cecilia Alemani? Risposte: è global, perché la mostra è davvero un immenso viaggio fra tutte le culture, dal Nord America all’Eritrea (con tantissimo Sudamerica, area emergente per il mercato dell’arte). È storica: perché moltissimi artisti (e artiste) sono del ’900, anche se magari da riscoprire (in questo la Biennale 2022 segue la linea di Jean Clair e dello stesso Gioni). È «materica»: poco o nulla digitale, tanti invece i materiali, di tutti i tipi. È «bipolare» (la parte dei Giardini forse coinvolge di più, quella all’Arsenale è troppo antropologica e a volte scivola nel barocco, o nel kitsch). E tanto (troppo?) fluida. E perciò, in tempi così incerti, piacerà molto.