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 2022  aprile 20 Mercoledì calendario

In morte di Lorenzo Mondo

Mario Baudino per la Stampa
«Si tratta poi solo di imparare un mestiere», ci diceva spesso Lorenzo Mondo, in redazione, con una certa incoraggiante sprezzatura. Era un riconosciuto maestro della critica letteraria, ma anche un giornalista stretto all’essenziale, testimone di un’etica senza retorica, che non confondeva i due piani anche se sapeva bene come potessero nutrirsi reciprocamente. La Stampa, e prima la Gazzetta del Popolo, non è certo stato, montalianamente, il suo «secondo mestiere». È stata, l’informazione, la posizione avanzata del suo impegno civico, in anni a volte tragici a volte magari un po’ patetici. Serviva etica e forse persino vocazione. Lorenzo le possedeva entrambe, senza mai indulgere alla retorica. Memorabili le sue battute alla fine di un lavoro ben fatto, come quella ricordata da un collega e amico pochi giorni fa, di lui che a sera, intorno alle 23,30, vista la prima pagina – l’ultima a dover essere approvata – si accende la pipa e commenta soddisfatto, in piemontese, soma al bon, come per dire anche stavolta ce la stiamo facendo.
In quegli anni era già vicedirettore. Lo divenne nel ’77, l’annus horribilis in cui le Brigate Rosse assassinarono Carlo Casalegno, e ne raccolse l’eredità. Era arrivato alla Stampa nel ’67, e proprio Casalegno, allora vicedirettore, lo aveva incaricato di occuparsi della terza pagina, la vetrina degli scrittori, degli intellettuali e dei viaggiatori. Era un terreno a lui famigliare, già ben frequentato alla Gazzetta del Popolo. L’archivio di quell’antico giornale torinese conserva suoi lunghi e motivati interventi su Cassola, Pavese o Fenoglio: ma quando cominciò a lavorarci, a 29 anni, si fece le ossa con la cronaca nera. E imparò qualcosa di fondamentale in uno dei suoi primi servizi, dove aveva descritto gli occhi “lacrimosi” d’un cane che guardavano il padrone defunto. La frase gli fu cassata con un ammonimento per il futuro: devi essere duro, essenziale, mica fare poesia, gli disse il capocronista. L’apprendista mise a frutto l’insegnamento. Al giornalismo era approdato relativamente tardi, e così alla laurea con Giovanni Getto, aveva frequentato poco le lezioni, perché doveva lavorare per mantenersi agli studi. Lavorò come insegnante serale e alla Cisl, e con gli amici cresciuti come lui nella parrocchia della Salute, quartiere Vittoria: soprattutto Carlo Donat-Cattin e Guido Bodrato, nel segno di un cattolicesimo aperto, plurale, che guardava a sinistra.
Quando si trovò alla Stampa, la sua formazione di cronista e di studioso fece di lui il naturale riferimento per le innovazioni che si stavano preparando sul terreno della cultura. Nel ’75 era nato Tuttolibri, il primo settimanale moderno dedicato alla lettura, e nel giro di pochi mesi toccò a lui prendersene cura. Lo guidò dal ’76 al 1980, per poi assumere il ruolo di vicedirettore quando il settimanale, guidato dopo di lui da Giorgio Calcagno, aveva affrontato una trasformazione radicale divenendo un inserto del giornale. Ne aveva fatto il più importante periodico italiano in questo campo.
Tuttolibri già «dettava legge», su una strada che a poco a poco seguirono gli altri maggiori quotidiani. E per un autore magari non ancora affermato, essere recensiti da Mondo voleva dire aver raggiunto il punto di svolta. Tutto questo però (in onore al vecchio mestiere) non gli impedì mai di essere un vicedirettore che sì aveva una particolare attenzione per la cultura, ma si occupava del giornale nel suo complesso, dalla politica allo sport. E sempre con quello che era il suo famoso tratto di sprezzatura: la semplicità, persino una certa “durezza” imparata da cronista rappresentavano le regole di base che sapeva imporre a se stesso agli altri: mai esagerare, mai cercare effettacci, mai fare «della letteratura», attenersi ai fatti, tenere il più possibile separati o almeno riconoscibili notizia e opinione, esercitare l’arte della franchezza, insomma come dal titolo di una sua seguitissima rubrica, dire pane al pane.

Alessandro Mondo per la Stampa

Guarda com’è elegante la loro livrea: sono creature innocue, e molto utili. Peccato che la gente le schifi, e talora le perseguiti». Loro erano le salamandre che quand’ero ragazzo, praticamente in un’altra vita, vivevano nei tombini vicino alla casa di montagna in Valle Pellice: lente e lucide, il dorso nero chiazzato di giallo e di arancio. Stessa attenzione per le lucertole che in anni più recenti terrorizzavano mia madre, lungo il perimetro della casa in collina, per la loro imprevedibilità nel saettare ovunque, senza una direzione precisa: con il rischio, non così remoto, di infilarsi in casa. Valle a trovare, poi. «Ma va, sono bestioline che non fanno male a nessuno», interveniva lui, catturandole con tecnica consolidata: gettava un fazzoletto sull’incursore di turno, poi lo estraeva piano e me la mostrava, la testina tenuta delicatamente tra le dita, prima di liberarla in giardino. «Vedi, sembra un piccolo dinosauro: prova a mordere ma non fa male». Come gli aveva insegnato suo padre. Come aveva imparato da ragazzo, in campagna, dove lui e la famiglia erano sfollati per la guerra, nel corso delle battute con i coetanei alternate alle lezioni in collegio. Sapeva essere obiettivo persino con le serpi, quando il cane di casa ne scovava qualcuna: le faceva sloggiare, ma senza accanimento.
Scrivi un pezzo su tuo padre, ti dicono: non sul giornalista, o sul critico letterario. Ma proprio sul papà: «Un pezzo da figlio». Una parola, ricordare e provare a mettere in fila 55 anni di ricordi, tanti sono, correndo il rischio di scadere nell’amarcord. O peggio ancora, nell’autocelebrazione di un padre che per i suoi figli è stato importante, alla pari di tanti altri per i loro figli. Quello che posso dire è che come se di padri ne avessi avuti due: quello noto a quanti hanno apprezzato il suo percorso lavorativo, la sua carriera, e quello più intimo, sconosciuto ai più eppure parte integrante, complementare, del primo. La città e la campagna: la prima è arrivata dopo, la seconda se l’è portata dietro per il resto della vita. Mai dimenticata. Trasudava da tutto il suo essere. Le mani grandi, di chi per un certo periodo aveva avuto a che fare con la terra più che con la penna. L’amore per gli animali. La conoscenza degli alberi e delle essenze coltivate dietro casa: rosmarino, timo, maggiorana, basilico... Quando ero piccolo strappava una foglia, la sfregava tra le dita e me la faceva odorare, perché imparassi a distinguere. L’amore per la natura, che per prima cosa coincideva con il suo Piemonte: le Langhe in particolare, rivissute e raccontate nella loro dimensione campagnola oltre che di teatro di una guerra partigiana fatta di imboscate, sparatorie, nomi talora impronunciabili di capibanda braccati per anni dai repubblichini, questi ultimi confinati nei centri urbani, e soprattutto a Torino. Perché fuori dagli abitati l’occupazione si riduceva a sanguinose puntate contro le bande partigiane, mai risolutive. Me la raccontava anche così, la storia: una storia che aveva vissuto in presa diretta, e che ai miei occhi di ragazzo sembrava il Far West. La città è arrivata dopo, con tutto quello che ha rappresentato in termini di realizzazione, e di carriera. Ma la campagna se l’è sempre portata dietro, con i suoi odori, colori, sapori. Radici profonde, mai venute meno. Quanto a Torino, me la faceva girare in lungo e in largo in cerca delle sue bellezze. Più spesso, delle sue curiosità: la parata di ex-voto alla Consolata, per esempio, le tracce dell’assedio francese del 1706, le gallerie di Pietro Micca. Ma anche i pezzi da novanta: la Galleria Sabauda, l’Armeria Reale, la Gam, l’Egizio. Lunghe passeggiate domenicali, quando non erano possibili le escursioni fuori porta, per spiegare, senza spocchia. E trasmettermi lo stupore, la passione che lui stesso aveva provato, molti anni prima. Anche quando si usciva da Torino, non era mai un’uscita tanto per: c’era sempre una chiesetta, un palazzotto, un castello, magari una semplice edicola dedicata a qualche santo che valeva la pena di essere raggiunta. Accompagnata da un buon pranzo, naturalmente, da una bottiglia come si deve e un mezzo toscano: "Anche questa è cultura".
Scrivi un pezzo su tuo padre... Amava Torino ma mi ha insegnato a conoscere Roma, la destinazione del primo viaggio fatto da soli: io e lui, una settimana a consumarci le scarpe per cercare di vedere il più possibile. E poi la Toscana, e l’Umbria. Amava il Piemonte mi ha fatto conoscere la Grecia continentale: in macchina, avanti e indietro per templi e necropoli. E l’ex Jugoslavia. E le svettanti cattedrali di Francia, e Parigi. Non serviva la guida: gli andavi dietro e bastava ascoltare. Come quando raccontava delle tartarughe delle Galapagos, il punto più lontano dove si era spinto.
Scrivi un pezzo su tuo padre... Mio padre è stato tutto questo, e molte altre cose ancora: un uomo profondo, che ha saputo restare semplice. È stato, in particolare, un accanito procacciatore di libri: per sé stesso e per me. Ha cominciato presto, quando ero piccolo. Ricordo un lontano Natale, con tre volumi posizionati strategicamente in mezzo ai soldatini, alle macchinine e al trenino elettrico: I ragazzi della Via Pal, L’Isola del tesoro, le avventure di Salgari. Poi le puntate alle bancarelle lungo via Po e in corso Siccardi. Dove peraltro si trovavano anche le libreria antiquarie, e le gallerie d’arte. Campagna e città, libri e quadri, il Piemonte e il mondo, in tutte le sue declinazioni e con tutte le sue potenziali avventure. Alla Salgari, insomma. Poco tempo fa mi confidò che li aveva riletti, i libri di Salgari: «Sempre incantevoli, anche allo sguardo di un adulto». Ma l’ultimo libro, letto più volte e reiniziato prima del ricovero, è stato I Promessi Sposi: «È un’opera di una ricchezza straordinaria – mi ripeteva gli ultimi giorni, quando si parlava di tutto pur di non parlare del presente in cui si trovava -: un vero tesoro, lo rileggi mille volte e scopri sempre qualcosa che ti era sfuggito». Si è fermato all’ottavo capitolo. Ciao papà. —



Ernesto Ferrero per la Stampa
Si intitola I padri delle colline il romanzo con cui nel 1988 Lorenzo Mondo si era cimentato nella narrativa, esordiente di piena e convincente maturità, dopo tanto esercizio critico. Di quei padri fondatori, solidi, misurati, sapienti senza darlo a vedere, modesti, risolti nell’eticità del loro scrupolo artigianale, fa parte anche lui, figura rassicurante e protettiva, cui ricorrere quando si tratta di orientarsi in tempi confusi. Aveva raccolto in Questi piemontesi le pagine che aveva dedicato agli scrittori più amati: Pavese, Primo Levi, Fenoglio, Arpino, Vassalli, Soldati, dove la lucidità dello sguardo nasceva proprio dalla famigliarità, da un senso profondo di appartenenza e condivisione. Quasi una sorta di autobiografia per interposti autori, nel segno degli stessi valori: la conoscenza approfondita dei testi, il rifiuto di gabbie metodologiche o peggio ideologiche, la scrittura scavata, martellata. La letteratura come nutrimento civile.
In fondo poteva anche essere un racconto di Pavese il modo con cui il giovane Mondo, all’apparenza un po’ ruvido, schietto, diretto come certi suoi personaggi, aveva trovato la sua vocazione. All’università era arrivato piuttosto tardi, perché lavorava già per mantenersi. Frequentava poco le lezioni (pensava di laurearsi con Walter Maturi su Storia del Risorgimento, che era appunto un modo di scavare nelle radici) ma ad un seminario su Marino aveva avuto un incontro con Giovanni Getto, altra bellissima figura di padre delle colline. Spesso accusato di superbia e arroganza baronale, il grande italianista lo confessa, sprona, incoraggia. Saputo che ama Pavese, lo invita a scriverci una trentina di pagine, e lo introduce nella confraternita che ha saputo creare: a sera ospita nel suo studio gli allievi più promettenti per un amichevole dialogo maieutico. Ci sono, tra i tanti, Magris, Beccaria, Davico Bonino. L’approccio di Mondo è così convincente che diventerà una tesi di laurea, poi pubblicata da Mursia nel 1961. Era in pratica il primo libro su Pavese, ed è presto diventato una bussola irrinunciabile, cui nel 2006 si è aggiunta una biografia, Quell’antico ragazzo, (ora riedita da Guanda), dove la freschezza del racconto si mette al servizio di una comprensione in cui arte e vita si illuminano reciprocamente.
Era stato proprio Getto a consigliare a Mondo di non pensare all’università, di cercarsi un lavoro. Lui aveva trovato alla Gazzetta del popolo, dove curava un Diorama letterario così eccellente che Giulio Debenedetti, altro presunto burbero, lo aveva chiamato a La Stampa.
Gli impegni giornalistici non gli facevano dimenticare i “suoi” autori. Con Italo Calvino aveva gestito il complesso cantiere da cui erano usciti presso Einaudi i due volumi delle Lettere di Pavese, importanti per approfondire il profilo dello scrittore e dell’editore. Proprio durante il lavoro sui manoscritti pavesiani Mondo si era imbattuto nel perturbante Taccuino segreto del 1942-43, fonte di non pochi imbarazzi e di dubbi trentennali. Deciderà di pubblicarlo solo nel 1990 su La Stampa, come documento di un breve momento di confusione e smarrimento che è stato di molti. Ma è anche vero, diceva, che da quelle pagine storte e umorali sono nate le pagine più alte, quelle finali, di La casa in collina.
Non meno proficui i lavori su Fenoglio. È stato Mondo il primo a districarsi nel labirinto delle carte dell’"inglese di Alba”, che saranno oggetto di furibonde scaramucce filologiche, consentendoci nel 1968 di leggere un capolavoro del ‘900, Il partigiano Johnny. Una serie di casi fortunati poi (ma la fortuna spesso ci vede benissimo) lo aveva portato ad acquisire gli Appunti partigiani, scritti sul rovescio dei conti della macelleria paterna, finiti in una discarica dopo uno sgombero di cantine, e preziosi per definire una più esatta cronologia di un’opera tanto tormentata. Una grande soddisfazione, per Mondo, che si riconosceva nell’impavida integrità dello scrittore.
Una certa aura pavesiana e fenogliana si ritrova anche nel Mondo narratore, che non a caso privilegia gli anni della guerra partigiana come momento-chiave della nostra storia recente. Per il ragazzino cresciuto nel fascismo e rifugiato in Monferrato con la famiglia, il crollo del regime e la guerra civile diventano riflessione accorata sull’aggressività della specie umana, sulla fine delle illusioni giovanili e lo spegnersi di una speranza di palingenesi, ma anche l’inizio di un percorso di maturazione. Ma le colline sono anche una irrinunciabile stratificazione di storie, leggende, figure epiche, mistiche, o strampalate: il racconto ci salva dalle mistificazioni della Storia. Agli anni della guerra in Monferrato e del dovere di nuove responsabilità Mondo è tornato anche nel recente Felici di crescere (Sellerio, 2020), breve romanzo di formazione, ormai disteso e placato, che ha il sorriso complice e appena malinconico di Gozzano, nel segno di una serena accettazione delle violenze, dei misteri e dei doni della vita.
Ai dilemmi del suo tempo il Mondo narratore ha sempre guardato con un disincanto che non nascondeva la speranza di un riscatto. Ne Il passo dell’unicorno (1991) cinque amici di varia estrazione si ritrovano in un albergo di montagna per discutere le patologie dei nostri anni degradati, dai massacri che si ripetono allo sfacelo del pianeta, per concludere che solo la forza e la grazia delle donne salverà il mondo. E oggi che abbondano i falsi profeti ci sembra di poter capire meglio Il Messia è stanco (2000), storia ottocentesca di un giovane prete della Val d’Ossola, che si proclama nuovo Gesù e seduce migliaia di fedeli ingenui e creduloni. Diceva Getto che gli scrittori importanti si riconoscono per l’umanità e lo stile.
Una cifra che abbiamo sempre trovato in Lorenzo, fedele alla lezione del maestro e dei suoi amati piemontesi. —