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 2022  aprile 20 Mercoledì calendario

Intervista a Flavio Insinna


Montatura spessa, il cappotto anni 60, ha mandato la foto alla sorella Valentina: «Falla vedere a mamma, sembro papà». Flavio Insinna interpreta il ruolo di Antonio Maglio, medico, dirigente dell’Inail, che ha cambiato il concetto di disabilità organizzando le prime Paralimpiadi a Roma nel 1960. La storia di un visionario innamorato del proprio lavoro è ricostruita nel film di Marco Pontecorvo A muso duro, in onda il 1° maggio su Rai 1. Nel cast Claudia Vismara, Paola Minaccioni, Massimo Wertmüller, Luca Angeletti. «Vi siete dichiarati sconfitti» dice Maglio ai pazienti. «Io ce l’ho il coraggio dotto’», replica un ragazzo «è che non c’ho le gambe. Me le dà lei?». «No.
Però potresti avere una vita».
Maglio lotta e non si arrende.
«Era un genio. Compra un piccolo peschereccio, progetta una carrucola per calare in mare i ragazzi e fargli fare il bagno. Diceva: “Dove sta scritto che un disabile non può sentire l’acqua del mare sulla pelle?”. Ha fatto tutto a livello altissimo, fino alle Paralimpiadi, ispirato dal dottor Guttmann che organizzava gare per i militari invalidi dopo la guerra. Una volta il disabile veniva lasciato al cronicario ingessato, con le piaghe.
Maglio taglia i gessi, restituisce la dignità a chi pensava che la vita fosse finita. È stato emozionante interpretarlo anche se quando Marco mi ha chiamato mi sono nascosto dietro l’impegno dell’ Eredità. Mi sarebbe piaciuto fare il medico».
Suo padre era medico, è stato il suo modello?
«Mi ha insegnato che non bisogna voltarsi mai dall’altra parte. Ha lavorato al Centro di riabilitazione Santa Lucia, un pomeriggio mi portò a vedere i ragazzi giocavano a basket in carrozzina, quando si scontravano il rumore era forte. Papà mi disse: è sport. Non lo ringrazierò mai abbastanza, sono ancora supporter della squadra. Nel 1976 andammo alle Paralimpiadi in Canada».
Che esperienza è stata?
«Mi avvisò: “Non farai il turista”. A undici anni spingevo le carrozzine degli atleti. Anni fa ero alla stazione Tiburtina, la parola paralimpico entrava nell’Enciclopedia. Si avvicina un signore: ti ricordi di me? Era Roberto Valori, presidente della Federazione nuoto paralimpico. A Toronto era un ragazzino biondo senza gli arti che in acqua sembrava un delfino, un vero campione».
Perché non ha fatto il medico?
«Perché gli aghi mi terrorizzano, se devo fare un prelievo fuggo. Bugs Bunny mi fa un baffo».
Che pensa dei tagli alla sanità?
«Mi si gela il sangue. Il diritto alle cure sta nella Costituzione. Gino Strada curava tutti, non si scappa da lì. Con il covid avremmo dovuto imparare che va rinforzata la sanità pubblica».
Le è capitato di arrendersi?
«Mi sono arreso all’idea che il cinema non sia cosa mia. Ho avuto mille colpi di fortuna, sarebbe ingeneroso dire: aspetto la grande chiamata. Spesso, per ottusità, invece di vedere il bello ci fissiamo su quello che ci manca».
Come nasce l’amore per la recitazione?
«Colpa della mia famiglia, ha sottovalutato il rischio di portarmi a vedere Volontè, Dorelli, il maestro Proietti, l’opera. A me gli occhi, please fu una folgorazione. Al momento di scegliere la facoltà confessai: vorrei recitare. Mamma aveva capito tutto, le donne accolgono. Mai vista una donna che tira su un muro».
All’Eredità ha chiesto: “Quando è stato fondato il corpo di pace americano? E mi sto zitto”. Ma da un po’ non sta zitto, e i social commentano.
«Che nel 2022 facciamo ancora la guerra mi sembra folle e ho detto che il risparmio andrebbe fatto sulle armi. Lo penso e lo dico. Mi sono riletto un’intervista del cardinale Zuppi, è riuscito a far fare pace ad alcune tribù in Africa. Spiega: “Non sento più parlare dell’alta diplomazia che deve trovare la strada, la pace vuol dire che tutti stanno fermi”».
Non si censura mai?
«Dico quello che penso. Il porto è aperto. Papà era medico della Marina, in mare si aiuta chi ha bisogno. Se fossi sbattuto dall’altra parte del mondo, non vorrei essere preso a calci e rinchiuso dietro il filo spinato. Spererei di trovare qualcuno con una coperta e un termometro. Da meridionale penso che il silenzio di cui parlavano Falcone e Borsellino, un po’ ti fa complice».
In Rai che le dicono?
«Niente. Con il direttore di Rai 1 Stefano Coletta la pensiamo allo stesso modo. Ma a qualcosa bisogna rinunciare, non puoi piacere a tutti».
Nel quiz quando plurilaureati non sanno le tabelline vorebbe urlare?
«Mi fanno tenerezza. Penso a papà che diceva: ripassati le capitali. Mi preoccupa per il paese che chi è nato nel 2000 non conosca Pasolini. Dico un altro grazie alla mia famiglia, a casa c’erano sempre i quotidiani».
La ghigliottina è il momento cult.
«Ci giochiamo non la partita dell’ Eredità ma il lancio del Tg1. La mattina dopo guardiamo gli ascolti del tg. Anni fa l’ex direttore generale della Rai Orfeo mi disse: “Pensa al Tg1”. Per me la ghigliottina ha una forza democratica, in rete si divertono e trovo decine di messaggi. Il super ghigliottinista Abatantuono mi lascia vocali stupendi per spiegare che è giusta la sua parola».
Ha ragione, a volte quella vincente si lega male alle altre.
«Riferirò agli autori».