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 2022  aprile 20 Mercoledì calendario

Intervista ad Amerigo Sarri

Per tutti i «Parapei» sono i Sarri in questa terra di ciclisti, di partigiani, di persone serie che sanno non prendersi sul serio. Perché poi li chiamino così, Amerigo Sarri non lo sa esattamente, ma suo figlio Maurizio, l’allenatore della Lazio e prima di Juventus, Chelsea e Napoli, quel soprannome al quale tiene come cosa cara l’ha fatto mettere in onore del nonno Goffredo, che fu partigiano, all’ingresso della stupenda villa incastonata nella collina che dà sul Valdarno, dove la dolce primavera attutisce le inquietudini di questi tempi. Amerigo, 94 anni a novembre, una forma strepitosa che gliene toglie venti, possiede la sobrietà di chi per tutta la vita ha fatto l’operaio e non si monta la testa per la fama del figlio, di cui è fierissimo, né tanto meno per la ricchezza, evidente dall’opera di architettura in cui vive l’intera famiglia: la moglie Clementina di 88 anni, sposata nel 1957; il 63enne Maurizio, quando può tornare, e il figlio di questi, Nicolé, 36. Quando parla di ciclismo, gli occhi balenano al riaccendersi dei ricordi di una carriera da professionista lasciata all’inizio perché non gli dava da vivere.
Quando è nata questa passione?
«Nel 1940. Ero con il mi’ babbo e vidi passare Coppi al Giro d’Italia. “C’è uno della Legnano che sta da solo, dicevano”. “Sarà il Bartali”, dissi io. Invece era il Coppi».
E cominciò con la bici?
«No, avevo imparato a sei anni e non ho mai smesso. Probabilmente sono nato con la bicicletta nel cervello».
Quali erano i suoi idoli?
«Bartali, Coppi...».
Li ha conosciuti?
«Ci ho corso insieme, con il Bartali eravamo amici».
Quando iniziò a correre?
«Nel ’46 come allievo, subito dopo la guerra, non c’erano né strade né ponti. Poi dilettante. Eravamo tanti, in ogni paese c’era una squadra».
Com’era il ciclismo allora?
«Più bello di quello d’oggi. Più genuino. Sarà perché son vecchio, quel ciclismo m’è rimasto nel cuore».
Si guadagnava correndo?
«No. Nei dilettanti ho vinto più di cinquanta corse e due selezioni per i mondiali. Un dilettante che oggi vince così piglia un sacco di soldi».
Quali gare ricorda?
«Tra le tante, una a Gaiole in Chianti, una barzelletta. Si rimase sull’ultima salita io e il Falsini (Valeriano, scomparso un anno fa, ndr) si imboccò la discesa e alla prima curva mi saltò il filo di un freno, alla seconda anche l’altro. Falsini vide che ero senza freni, ma io gli dissi: “Ti batto lo stesso in volata”. A Gaiole vinsi io. Da professionista feci tre corse in Belgio, le Valli Varesine e chiusi con il Lombardia nel 1953».
Perché smise?
«I soldi non bastavano per campare e non mi piaceva l’ambiente».
Mi dica di Bartali.
«Io ero coppiano, ma Bartali era una persona eccezionale. Quando passava in allenamento da Figline (Valdarno, paese di Amerigo Sarri, ndr.) si fermava con noi dilettanti e si andava assieme in bicicletta. La nostra amicizia è durata finché è morto. Una persona di serietà e correttezza enormi. Come atleta aveva tutto».
Le ha mai parlato di quando faceva la staffetta per la Resistenza?
«Non era uno che ne parlava volentieri. Era riservato, non gli interessava nulla di mettersi in mostra. Ma si sapeva quello che aveva fatto».
Basta con le gare, lavoro.
«Operaio: 10 ore al giorno e 5 nei festivi. Ho montato gru per un’impresa che mi mandò a Lovere, sul Lago d’Iseo, e poi a Napoli».
Dove nacque suo figlio.
«Quando iniziò a parlare, parlava bergamasco (ride). Sentiva tutti che chiamano i padri “papà” e lo faceva anche lui. “Nun so’ papà, sono babbo”, gli dicevo, perché in Toscana si usa così. Cominciò a chiamarmi “ba-pà”».

A lui non piaceva la bici?
«Come no. Ha vinto anche delle corse da esordiente. Veniva in bicicletta con me. Una volta, mentre era svincolato, gli chiesero che partita gli sarebbe piaciuto vedere, rispose: “Se c’è una tappa del Giro d’Italia o del Giro di Francia, guardo quella».
Che ciclista era?
«Forte in pianura, velocissimo, predisposto per le salite brevi. Smise da esordiente a 13 anni perché gli amici giocavano a calcio e andò anche lui. C’era la fila dei direttori sportivi che non volevano che smettesse. Arrivò dilettante».
Andava bene nel calcio?
«Insomma (sorride). Come ciclista poteva fare strada, come calciatore... Aveva un po’ i piedi per conto loro. Era un difensore, uno spogliatore».
Cosa?
«Uno che con le buone o le cattive non ti faceva passare».
E come allenatore?
«L’allenatore l’aveva nella testa da piccolo. Metteva in corridoio le figurine dei calciatori e gli faceva fare i passaggi».
Era tifoso?
«Da bambino era per il Napoli. Una volta si andò a vedere Fiorentina-Napoli con la 500 targata Firenze. Sull’autostrada i napoletani ci salutavano. All’arrivo mi accorsi che aveva messo dietro un telone “Forza Napoli!”. Si andò in curva con i napoletani, ma la Fiorentina vinse 2-0».
Ha lavorato in banca.
«È sempre stato bravissimo. Ha cominciato nella sede centrale della Banca Toscana, poi in Inghilterra, in Lussemburgo, in Olanda».
Ne è orgoglioso.
«Sì. Come figliolo».
Parlate mai di calcio?
«Io il calcio non lo guardo».
Non segue suo figlio?
«No. Se c’è da dare un po’ di tifo lo faccio per la Fiorentina. E faccio il tifo per mio figlio».
Lui va ancora in bici?
«Ha una mountain bike qui, di quelle a pedalata assistita. Ci va nei boschi».
Che gliene pare del ciclismo di oggi?
«Son forti tutti, troppo, non è possibile. Non so se per le biciclette o per la preparazione. Quello che non mi torna è tutta questa gente che gira nel ciclismo. Troppi direttori e preparatori atletici».
Lei poi riprese a correre?
«Come cicloamatore, ho vinto un campionato italiano. Fino alla pandemia».
Risalirà in sella?
«Meglio di no, per l’età, ma se ci risalgo ci rivo’».