Corriere della Sera, 20 aprile 2022
Intervista a Eugene Hütz, il cantante della band punk rock newyorkese Gogol Bordello
«Sono nato e cresciuto in Ucraina, dove la sovietizzazione era un atto di aggressione. Consisteva nello sbiancare ciò che l’Ucraina è veramente. Non significa che ci siano riusciti. Tutti abbiamo parenti nei villaggi e venivamo esposti al magico miscuglio di diversità del Paese. Vai in Carpazia, nell’Ovest, e si parla ungherese, rumeno e romani, la lingua rom; e poi la lingua tartara, il tartaro della Crimea, i dialetti bucovino, lemko... Il motivo principale per cui ho scelto Gogol come simbolo è che, quando me lo chiedono, posso dire: non è affatto russo. Nella Russia zarista la cultura ucraina era praticamente proibita. Nikolai Gogol scrive in russo, ma i contenuti sono archetipi e miti ucraini».
Eugene Hütz, il cantante della band punk rock newyorkese Gogol Bordello (e attore in «Ogni cosa è illuminata» basato sul romanzo di Jonathan Safran Foer), è nato a Boyarka, poco a sud-ovest di Kiev. Dall’inizio della guerra, ha raccolto fondi per il Paese. Nel primo concerto lo ha affiancato Patti Smith, ora inizia il tour di beneficienza in America e a luglio sarà in Italia, dove ha vissuto 7 anni.
Su Instagram ha messo la foto di un suo zio 73enne che ha imbracciato le armi.
«Siamo cresciuti con nonni che avevano ferite d’arma da fuoco alle spalle, alle anche, perché erano stati in guerra. Per noi è una cosa tangibile. La psicotica invasione russa non è uno choc, è successo in passato. A 10 anni mia nonna mi raccontò come sopravvisse alla carestia imposta da Stalin negli anni 30, che uccise milioni di ucraini; poi i russi furono mandati a ripopolare quelle zone. Storicamente e culturalmente siamo stati oppressi e ci siamo ribellati per così tanti secoli che lamentarsi non fa parte del nostro Dna. Neppure alla mia figlioccia di 12 anni trema la voce quando le parlo su Facetime. Credono tutti fermamente che la vittoria sarà nostra».
Suo padre faceva il macellaio e suonava in una delle prime rock band ucraine. Ma è vero che a lei piaceva il rock russo?
«Falsissimo. La stampa russa cerca di far finta che siamo loro amici. Dieci anni fa, già prima di Maidan (la rivoluzione del 2014, ndr), ho smesso di suonare in Russia, perché era chiaro in quale direzione stava andando l’intero Paese. Macché rock russo. Sono cresciuto con Nick Cave, i Dead Kennedys,i Clash, le band ucraine e polacche che erano molto più avanti. Secondo la mia pagina su Wikipedia vivo a São Paulo e ho un fratello russo! Idiozie intelleggibili».
I luoghi della guerra hanno un significato particolare per lei. Per esempio, Obolon, il Bronx di Kiev, dove arrivarono i primi sabotatori russi, è dove sarebbe nato il rap se fosse nato a Kiev.
«Esatto, i russi sono stati malmenati dai gangster di Obolon! Li hanno arrestati e consegnati alle forze armate. Le parole non bastano: alcuni dei miei ricordi più cari dell’infanzia sono di Bucha, Boyarka, Irpin. Ci andavamo in campeggio. I russi pagheranno per le loro atrocità».
Perché dopo Chernobyl, la sua famiglia lasciò il Paese?
«Avevo 16 anni, i miei erano perseguitati da vent’anni dalle autorità sovietiche, creavano seri ostacoli alla nostra vita. Compilammo i moduli e ricevemmo lo status di rifugiati».
Noi ucraini siamo stati oppressi
e ci siamo ribellati per così tanti secoli che lamentarsi non fa per nulla parte del nostro Dna
Perché vi perseguitavano?
«Per l’atteggiamento anti-sovietico. Già in prima media il mio futuro era segnato, probabilmente non avrei avuto accesso all’università».
Una parte della sua famiglia ha origini Servitka rom?
«Sì, l’ho scoperto a 13 anni, ma non potevamo celebrarle apertamente, avevamo già abbastanza problemi. Dopo l’esplosione di Chernobyl fummo evacuati a Est, dove viveva quella parte della famiglia. Non erano ordinari e sbiaditi cittadini sovietici, avevano una cultura e una reputazione di strada. Non fui più lo stesso, dopo».
La mancanza di colori della sua infanzia spiega lo spettacolo carnevalesco del suo «gypsy punk»?
«Assolutamente. Se cresci tra blocchi di cemento senza alberi, li colorerai con l’immaginazione, la musica, ed è ciò che facemmo col punk rock. Non ascoltavamo la musica dei nostri padri, il cosiddetto rock’n’roll proibito, ma i Sex Pistols, i Dead Kennedys, poi la musica elettronica e techno. Tagliavamo a nostro modo le divise di scuola e ci mettevamo nei guai coi sovietici».
Passando da Polonia, Ungheria e Croazia, lei arrivò a Santa Marinella (Roma) che dà il titolo a una sua canzone piena di bestemmie.
«È un pezzo comico, si prende gioco della nostra esperienza di migranti in un Paese europeo di cui non sai nulla e tenti di sopravvivere».
Una volta fu arrestato. Imparò in carcere le parolacce?
«Passai una notte alla stazione dei Carabinieri. Suonavo per strada, mi fermarono. Il programma rifugiati mi fece uscire. Ma quelle parole le imparai all’incrocio lavando i vetri con altri rifugiati. Alcuni automobilisti erano contenti, ci davano anche 5.000 lire, altri niente oppure ci mandavano via bestemmiando».