Linkiesta, 19 aprile 2022
Claudio Cecchetto vuole rendere Riccione Great Again
Per me Claudio Cecchetto avrà sempre i ventott’anni che aveva quando presentò il più superfragilistico Sanremo della storia, quello vinto da Alice che vestiva Coveri e cantava Battiato, quello con Sergio Leone presidente della giuria di qualità, quello col Gioca Jouer come sigla.
Per me Claudio Cecchetto sarà sempre quello del Gioca Jouer, e mi fa impressione che ora lo intervistino giornalisti trentenni che si occupano di politica e non sanno cosa sia quella canzoncina moschicida (Cecchetto dice che è impossibile non la conoscano, non è mica stata canzone di formazione solo dell’infanzia mia, «io devo ringraziare le maestre d’asilo, la lambada è difficile, il Gioca Jouer invece ha le istruzioni vocali»).
Oggi Claudio Cecchetto compie settant’anni, non conduce più Sanremo ma i Sanremo di questo secolo continuano a essere pieni di scoperte sue («mezza televisione è mia», dice quando lo chiamo durante il picnic di Pasquetta: sembra il Pippo Baudo delle nostre giovinezze). In compenso è candidato a sindaco di Riccione, le elezioni saranno il 12 giugno.
Elenco breve di quelli che mi dice andranno a sostenerlo. Lorenzo Jovanotti, «ma non viene a fare campagna elettorale, viene a raccontarmi; certe volte da lui sento una descrizione del mio lavoro che dico: cacchio, che bravo che è Cecchetto». Sabrina Salerno, «facciamo una pizzata e magari mettiamo lì un bel karaoke». Max Pezzali, «verrà sicuramente, è un fratello».
Elenco breve di quelli che quando gli chiedo se li abbia sentiti dice di no: Silvio Berlusconi, Rosario Fiorello. Mi dimentico di chiedergli di Amadeus e di Fabio Volo, a distrarmi è la riflessione su come li abbia scoperti e lanciati e all’epoca siano – quasi tutti: Fiorello, Volo, Jovanotti – stati accolti come i più scemi della nazione e il segnale dell’idiocrazia incipiente, e poi nel secolo successivo ci ritroviamo ad ammettere che sono i migliori intellettuali in circolazione. Sarà il declino delle élite.
Mi spiega Cecchetto che «è il momento del civismo». Che tutti e due gli schieramenti gli hanno chiesto di essere il loro candidato, ma la sua idea è che «i partiti devono cominciare a essere sponsor; non nel governo nazionale, ma nelle realtà locali: se volete fare i miei sponsor, fatelo pure. Ma loro volevano che io diventassi il loro testimonial». Tutti vogliono essere Giorgio Mastrota, nessuno la batteria di pentole.
Dice che «siccome a Riccione nascono le mode, facciamo nascere la moda delle amministrazioni civiche». Dice che «gli altri si beano del fatto che sono civici anche loro: mica tanto. Dicono: io sono civico, e vedi il simbolo della Lega, io sono civico, e vedi il simbolo del Pd». Dice che «la differenza è che io ho fatto le cose e poi ho avuto i consensi. Qua in politica prima devi avere i consensi e poi puoi fare le cose».
Gli dico che a sentirlo mi sta assalendo la celeste nostalgia dei miei vent’anni, quelli di Silvio candidato. Risponde che «infatti era un imprenditore, gli han dato fiducia, cose ne ha fatte, poi quando hanno ritenuto sbagliasse non l’hanno più votato», e io penso ma vedi che bravo ’sto Cecchetto, anche la lezione sui contrappesi della democrazia.
Non sono abbastanza posseduta dallo spirito di patate da suggerirgli il Vota Voter, canzoncina moschicida in cui si spieghi dove mettere la croce e come ripiegare la scheda, attività che dovrebbe essere a prova di scemo ma nella dittatura della scemenza a ogni turno elettorale c’è qualcuno che si lamenta non venga spiegata a sufficienza. In fondo il Gioca Jouer era un tutorial prima che si chiamassero così, è perfetto per l’epoca in cui nessuna spiegazione è abbastanza semplificata.
Nella Riccione del secolo scorso, Cecchetto portò l’Aquafan, Deejay Television, il karaoke. Dice che è arrivato il momento di restituire, e che il brand (dice proprio «brand») Riccione è fortissimo ed è solo uno dei due, l’altro è il brand Ceccarini (viale Ceccarini è in effetti punto d’attrazione immutato rispetto a quando la me sedicenne andava in discoteca in Romagna e la mattina faceva colazione al Green Bar, diversamente da quel che accadde a via Veneto a Roma, spentasi assai prima della propria leggenda).
A un certo punto mi accorgo deliziata che parla per citazioni citabili, per slogan elettorali, quegli intervistati ideali che ti danno sei o sette titoli. «A me piace scrivere i libri invece che leggerli: mi piace scrivere le regole». «Io la stessa cosa non la faccio mai: vedrai che Riccione con me diventa un format». Gli chiedo cosa cambierebbe di com’è stata gestita Riccione finora, e mi delizia di nuovo: «Sono amante di Troisi come attore e anche come filosofia: ricomincio da tre, mica da zero, le cose buone le tieni. Qua son tutti: cambiamo, facciamo…»
Quando dice a proposito degli artisti scoperti da lui «ci sono quelli che sono nel curriculum, e quelli che sono nel cuore», chiedo se sia una frecciata a Fiorello, che non mi ha elencato tra coloro che si aspetta vadano a Riccione. «No! Non gliel’ho chiesto, non ci siam sentiti. Io non chiedo mai». Ha il tono urgente di chi vuole disarmare l’incidente diplomatico.
Il primo figlio di Cecchetto tra qualche settimana compie ventotto anni. È nato nel 1994, quando il primo governo Berlusconi non aveva neppure un mese. Adesso è un dj radiofonico, e il Cecchetto settantenne racconta che, quando si trova tra ragazzi che magari conoscono le canzoni di Lorenzo Cherubini ma non il tizio che s’inventò Jovanotti, è abituato a non essere riconosciuto. «Provo la sensazione di essere un emerito sconosciuto. Sono il padre di Jody, l’influencer». Vado sull’Instagram di Jody. Segnala una diretta Twitch da un qualche locale affollato di Riccione. Chissà in quanti hanno la residenza, chissà se votano tutti papà.