La Stampa, 19 aprile 2022
I racconti di Ceronetti
Prima di tutto, va dato il giusto rilievo a una cosa evidente ma non ovvia: questi racconti li ha scritti Guido Ceronetti. Sì, proprio il traduttore di testi biblici, il polemista antimoderno, il collezionista di trattati medici, il cronista inattuale, il reporter stomacato dei viaggi in Italia. Proprio uno scrittore come lui ha sentito il bisogno di uscire dalla sua tana bibliosofica e liberare la fantasia, senza fondarsi sempre e solo su altri testi, senza l’obbligo di citare, di commentare, di rifarsi a tradizioni culturali canoniche o arcane.
Per la verità, in questo libro ci sono anche storie che si ispirano a miti classici e personaggi storici. La narrativa di Ceronetti si dibatte in un’ambivalenza: da un lato, il bisogno di appoggiarsi su antichi documenti, sapienziali o accademici; dall’altro, l’abbandono all’incontenibile anarchia delle parole, che immaginano ciò che vogliono, senza ripararsi all’ombra della tradizione.
Per quel che valgono le mie preferenze, di questi Deliri Disarmati mi hanno ammaliato di più i racconti della seconda specie, i più liberi da riferimenti culturalistici. Per esempio, L’uomo antropomorfo. Qui Ceronetti si installa nel futuro, in un’«epoca post-storica»: immagina come saremo ricordati dopo l’estinzione della nostra specie. È malinconicamente sardonico il finale: l’unica reliquia del linguaggio umano che resterà è una sequela di frasi banali ripetute dai pappagalli.
Un altro racconto bellissimo è Le illusioni di un fiore: in questo caso c’è un rovesciamento fra regni animale e vegetale. Un fiore va a spasso per la città, e vede un uomo che spunta come una pianticella fra le pietre di un muretto. Lo estirpa, lo porta a casa, lo mette in un vaso di cristallo, gli cambia l’acqua, gli procura dei sigari e lo nutre con salame e vino. L’uomo, classificato con sarcasmo come Europaeus majalis, deperisce e muore.
Anche in questo libro si riconosce l’atteggiamento inconfondibile di Ceronetti verso il mondo: il disgusto. Lo si ritrova quasi in ogni pagina di tutti i suoi libri, variato in mille modi, con il più ampio armamentario retorico. Ce n’è a mucchi. Disgusto per gli esseri umani, per i loro corpi, le loro malattie. Disgusto per l’Italia, per i suoi abitanti e per i suoi turisti. Disgusto per i contemporanei, per la loro criminale frivolezza, per come sprecano la vita, mancando l’essenziale; per i piaceri che si procacciano, per i privilegi e i comfort di cui godono, che un tempo erano concessi solo a eroi e sovrani, e oggi sono accessibili a chiunque, senza alcun merito, grazie alla tecnologia. Disgusto per i romanzi, soprattutto quelli più popolari, da Elsa Morante a Carlo Cassola. Disgusto per la modernità, per la nostra epoca irredimibile. Il mondo è un sacrilegio. E fa schifo.
È vera disperazione o è una posa? A me sembra sincero malessere, anche perché, alla lunga, annotare tutte le proprie irritazioni non lascia indenni; specializzarsi nel dichiarare una continua insofferenza fa star male di per sé. E poi, è un disgusto etico (a parte qualche caduta, tanto sessismo e tantissimo moralismo): Ceronetti combatte sapendo di essere ormai in gabbia; quelli come lui, la modernità li ha inchiavardati e lasciati ad ammuffire fra le loro sacre scritture pulverulente, gettando via la chiave; ma lui combatte lo stesso, con armi eroiche e risibili. Lo fa fin dai suoi primi libri: in Difesa della luna (1971), dopo l’allunaggio dell’Apollo 11, applica una puntigliosa esegesi biblica per rinfacciare ai conquistatori spaziali che non è vero, come ripetono loro, che il Dio veterotestamentario abbia messo l’universo a disposizione degli esseri umani; in La carta è stanca (1976) promuove l’aborto e nega lo status di persona al feto, in nome del paganesimo e della necessità di spopolare la Terra esausta; in La Musa ulcerosa (1978) lancia invettive contro l’industria intossicatrice, il fosgene, la diossina, e con la stessa veemenza maledice l’insensata moda di deodorare le ascelle e non portare più le mutande sotto i pantaloni.
In quei decenni, altri scrittori che avevano il mondo in gran dispitto adottavano la retorica del pessimo. Fra tutti, Thomas Bernhard (che – fa un certo effetto constatarlo – di Ceronetti era quasi coetaneo: l’austriaco nacque nel 1931, il torinese nel 1927): per lui tutto è orrido, tremendo, abominevole. Il giudizio di condanna su tutto e tutti è sempre iperbolico, il livello aggettivale sempre superlativo negativo, la scelta lessicale sempre spinta al polo più abietto della serie sinonimica. Così, però, i gradi del Male si equivalgono, finiscono per essere tutti uguali, tutti gravissimi, non c’è più differenza tra veniale e imperdonabile, tra bruttino e orrendo, perché tutto è imperdonabile e orrendo. Come mai chiamo in causa Bernhard? Perché aiuta a capire meglio, per analogie e difformità, la pessimologia di Ceronetti, che invece è virata quasi sempre sulla reazione fisica, è un’esperienza sensoriale di repulsione. Il Male è ripugnante fisicamente, fa tappare il naso, rivoltare lo stomaco, rabbrividire i nervi, accapponare la pelle, drizzare i peli, sbiancare i capelli. Bernhard calca sul versante etico dell’abominevole, Ceronetti su quello sensoriale del nauseante. Non solo riprovazione morale, dunque, ma innanzitutto disgusto. Non solo contemptus, ma proprio fastidium mundi.
A queste ripugnanze va aggiunta quella per la lingua italiana, per come si è ridotta nel Novecento. Nell’Occhiale malinconico, Ceronetti si rammaricava di scrivere «in una lingua europea ex magnifica, sfigurata e sopraffatta da scorie verbali tossiche, non più creativa nel popolo». Ma questa allergia linguistica è la causa di una scatenata inventiva lessicale. Qualche esempio da Deliri Disarmati: «sfacibile sfacitore», «cagòdromo», «lercia e slampadata», «una palpebrata segreta», «un sergozzone», «prepuziatrice», «un Dio pirchio», «potenza plutoniale», «occhi fredegondi», «ganziboldi», «grido marlupo». L’insofferenza dello scrittore diventa una scorpacciata per chi legge.