la Repubblica, 19 aprile 2022
Intervista a Tiago Rodrigues
La parola dubbio in portoghese è femminile. U ma duvida. È una parola sempre gravida. Si perde l’equilibrio, per un istante, quando le parole in un’altra lingua cambiano genere.
Il mare, la mar – in spagnolo. Un dubbio, uma duvida in portoghese. È diverso, no? Sì, molto – risponde dopo il silenzio del pensiero Tiago Rodrigues. «Le parole al femminile sono più capienti, hanno più spazio per tutto». Uno dei più importanti drammaturghi europei, prossimo direttore del Festival di Avignone, 45 anni, nato a Lisbona, Rodrigues ha fatto esperienza di Roma per quattro giorni: ha portato al Teatro Argentina il suo Catarina, e la bellezza di uccidere fascisti (a fine mese sarà a Modena, poi in Europa) e ha sperimentato la continenza del pubblico, numerosissimo ma composto, disabituato e intimidito dall’opportunità di una rivolta. Ha conosciuto la nostra classe politica. Un parlamentare di Fratelli D’Italia di nome Mollicone ha chiesto di «sospendere la programmazione». Si è rivolto al sindaco. Militanti di destra hanno invitato Giorgio Barberio Corsetti, per qualche giorno ancora direttore dei Teatri di Roma, a mettere in scena (Allora! Anche!) uno spettacolo che inviti a «uccidere comunisti, o giornalisti». Nessuno di loro aveva visto lo spettacolo, tuttavia, il cui tema è il dubbio, appunto: se uccidere serva a fare giustizia, tra le molte altre domande di una certa attualità. Si sono basati sul titolo. Succede sovente.
Che cosa ha pensato, quando è arrivata la richiesta di censura?
«Che devo ringraziare l’onorevole Mollicone. Ha certamente spinto qualcuno in più a teatro, fosse solo per vedere di che si tratta. Magari tra il pubblico c’era il prossimo primo ministro italiano. Qualcuno, una ragazza o un ragazzo, che deciderà oggi di fare politica. Del resto era prevedibile che la destra volesse censurare fin dal titolo. Il pre-giudizio funziona così».
Prevedibile e previsto. Dal titolo all’epilogo, in cui un deputato fascista, o populista, esaspera la platea con un comizio fluviale, provocandone la rivolta. Non è questo il suo scopo?
«Per il monologo finale ho ascoltato duecento ore di discorsi di Salvini, Bolsonaro, Trump, Orban, Ventura – un portoghese.
Sono tutte parole davvero pronunciate nei “discorsi della vittoria”’, a partire dall’incipit: “Voglio parlare di libertà”. Questo è il “discorso pubblico” in cui viviamo. Che ascoltarlo in teatro disturbi è un buon segno, mi pare.
Comunque non è obbligatorio che disturbi. È interessante anche il silenzio. La reazione del pubblico è sempre preziosa: è il senso dello spettacolo».
Tuttavia il teatro è per una élite. La maggioranza delle persone non ha soldi, non ha tempo, forse alcuni non sanno nemmeno che il teatro esista.
Hanno la tv, i social, i telefoni.
«Questo è il problema. A differenza della letteratura, che ha un consumo solitario, a teatro si combatte insieme. Le arti vive, quelle dal palco (il teatro, la danza) hanno la possibilità di ricostruire la comunità dei corpi. Dovrebbero essere come un caffè dove ci si siede. Bisogna però che le persone ci arrivino».
Come si fa?
«Uno a uno. Andando a prenderle. Io ne sono l’esempio incarnato. A quattordici anni un professore mi mise una mano sulla spalla e mi disse: vieni».
Come si chiamava?
«Jorge Pitè. Veniva dal Mozambico, insegnava sociologia. Il teatro, la sua mano tesa mi ha cambiato la vita. Mi ha salvato dalla solitudine. Faccio teatro per questo».
Ha mai fatto lo stesso gesto con altri?
«Sempre. A Lisbona al Teatro Nazionale abbiamo un progetto che si chiama “La prima volta”.
Sono andato a cercare una ad una le anziane signore, le persone al bar. Venite. Oggi non posso, mi rispondevano. Venite domani.
Questi sono i biglietti. Una donna di 60 anni che viveva di fronte al teatro non ci era mai entrata: pensava di non avere i vestiti giusti. Ma non erano i suoi vestiti a essere sbagliati, erano quelli degli altri. Si è fatta i capelli, quella sera. Mi ha chiesto: posso dire anche se non mi piace? Abbiamo fatto un lavoro occhi negli occhi, per anni, nei quartieri. Ci vuole tempo. Non occorre il marketing. Serve la mano che ti dice andiamo».
A cosa serve il teatro se il mondo di prima finisce?
«La parola e la presenza fisica dei corpi sono tutto quello che abbiamo per ricostruire una comunità. Stare insieme, ascoltarsi, dubitare. Come siamo arrivati fin qui? Cosa possiamo fare per rimediare? Dove abbiamo fallito? Non c’è posto per il dubbio, nel dibattito pubblico. È uno scontro fra fazioni. Indiani e cow boy. Tutti sempre soli, tuttavia».
Dire, come dice la protagonista del suo spettacolo, “non voglio uccidere” significa, oggi, essere dalla parte dei pacifisti ed essere dunque arruolati fra i sostenitori del tiranno. O uccidi o muori.
«La principale ragione di questa guerra è il regime autoritario di Putin. Dire che chi non vuole armi è con Putin è una semplificazione pericolosa. Bisogna discutere del fallimento degli uomini, dell’impotenza della parola.
Bisogna dare forza agli ucraini come ai dissidenti russi. Io sono ateo, non cattolico, ma riconosco le parole del Papa: uno dei capi di Stato più a sinistra d’Europa».
Cos’è dunque la “bellezza di uccidere”?
«C’è una grande differenza fra i modi del discorso. Quello artistico, quello politico, quello della cronaca. C’è una grande confusione di contesti. Oggi un politico può mettere in dubbio uno scienziato e un commentatore da casa avere lo stesso valore di un cronista sul campo. Non è così. Esiste la competenza, il codice. Se uso poeticamente la frase “la bellezza di uccidere” metto in campo un tema: non lo uso politicamente.
Sarebbe come accusare Hitchcock di incitare a uccidere le madri, in Psyco».
Anche Pasolini ha trattato il tema dell’alta borghesia fascista, in “Salò”. Il suo film è stato censurato.
«Salò è stato un nostro riferimento. La democrazia deve ricreare uno spazio dove Pasolini non sia censurato. Forse in sala, oggi, c’è il Pasolini di domani».
Cosa avrebbe fatto, se non avesse fatto teatro?
«La politica, male. Il giornalismo, male. Forse sarei stato buono a gestire un caffè». Perché male, giornalismo e politica?
«Mio padre era giornalista.
Conosco quel lavoro. Sono nato tre anni dopo la fine della dittatura.
Lui non poteva leggere Brecht in pubblico. Io ho potuto. Sono più libero. Nel teatro posso inventare, ricreare. Posso usare la parola poetica, che trasforma».
Nel suo spettacolo il narratore è silente. Sta in cuffia, ascolta musica, ha deciso di non parlare.
Cosa significa?
«Ecco, vede? Non lo so. Io non sono in grado di controllare il significato, per il pubblico, di quello che metto in scena. Il giovane narratore muto cosa suscita negli spettatori? Non lo so. La più importante delle rivolte non è quella che urla la platea, se e quando urla, ma la reazione silenziosa e lenta – muta – che ciascuno porta a casa. È quello che cambia».
Abbiamo perso la capacità di reagire?
«No. Possiamo cantare. Ho messo il flamenco di Rosalìa, in scena. Ho scelto Fischia il vento per il coro. La suoneria del telefono di uno dei protagonisti – per l’Italia è Bella ciao – in ogni paese è un canto di resistenza diverso. La musica e la parola sono nostre. Ancora».
E se il pubblico non viene? E se viene e non capisce?
«Che venga tocca a noi. Andare a cercarlo. Che non capisca è impossibile. Abbiamo bandito la complessità, è vero. Le abbiamo tolto casa. Bisogna ridargliela.
Ogni reazione è legittima, per ricominciare. Anche nessuna reazione. Ogni gesto ha senso, bisogna ripartire da lì. Senza mai pretendere. La ragione è dove qualcosa fiorisce, una rondine vola, un dubbio cresce».