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 2022  aprile 19 Martedì calendario

Acciaio, litio e coblado. Cosa c’è nelle terre del Donbass


Altro che nostalgia di recuperare l’identità dell’antico popolo slavo dei Rus’, altro che mistici richiami al “sacro fiume” Dnepr, altro che «l’Ucraina non esiste» come ama ripetere Vladimir Putin: l’aggressione militare cela motivazioni pratiche e irresistibili per un Paese in difficoltà economiche come la Russia. È chiaro fin dal primo giorno del conflitto che Mosca punta alle ricchezze minerarie del Donbass, e possibilmente anche all’altrettanto prezioso tessuto industriale di tutta la fascia Mariupol-Odessa che cinge la Crimea.
Il tesoro del Donbass, anzitutto. Non c’è che l’imbarazzo della scelta. Dalla regione proviene il 90% del gas neon, base dei chip elettronici. La Iceblick, fondata 32 anni fa a Odessa, produce il 65% di tutto il neon del mondo ed è fornitrice privilegiata della Silicon Valley. Le quotazioni, inutile dirlo, sono decuplicate. Quanto al litio, a Donetsk il gruppo australiano European Lithium aveva appena chiuso un maxi-contratto di estrazione, e la cinese Chengxin stava finalizzando una concessione: non se ne è fatto nulla. Le rocce dell’area, dicono gli esperti del Cnr di Roma che hanno studiato il caso, sono pregiate perché il litio non è contaminato da altri metalli (zinco, piombo, cadmio) bensì ricco di quarzo e silice da vendere all’industria della ceramica. Altre terre rare – cobalto, cromo, tantalio, niobio, berillio, zirconio, scandio, molibdeno – si trovano nel sottosuolo, cruciali per produrre dalle fibre ottiche ai catalizzatori, e poi il 10% delle riserve mondiali di ferro, il 6% di titanio, il 20% di grafite. Il servizio geologico di Kiev stava approntando un programma per attirare 10 miliardi di investimenti.
Strettamente connesso a questa ricchezza del sottosuolo è lo sviluppo industriale di tutto il sud-est ucraino. L’acciaieria simbolo dell’assedio a Mariupol, la Azovstal del gruppo Metinvest, fondata nel 1837 e rilanciata nel 1933, la più grande d’Europa, era un gioiello di tecnologia ed efficienza: vicina alle fonti di approvvigionamento energetico e di materie prime, a fianco del porto commerciale, strategicamente collocata nel cuore dell’Europa. Un prestigio riconosciuto dalla stessa Mosca: ai tempi dell’Urss forniva il 50% dell’acciaio prodotto nel grande Paese. Malgrado si trovasse in una terra di tensioni, l’impianto ha fatturato l’anno scorso 2,7 miliardi di euro (il 40% in più dell’Ilva di Taranto), in concorrenza con l’altro produttore Kryvorizhstal recentemente acquisito da ArcelorMittal, vicino Kiev. La siderurgia non è l’unico fiore all’occhiello della manifattura ucraina: crescente successo hanno le auto della Zaz (Zaporizhzhia Automobile Zavod) che prende il nome da un’altra città martire della guerra. Fondata nel 1863 come fabbrica di aratri a Melitopol (dove oggi ha sede lo stabilimento per cilindri e condizionatori anch’esso bombardato), ha subìto diverse evoluzioni fino all’auto nel 1957: il primo modello fu una copia su licenza della Fiat 600. Lasciata la vocazione della “macchina del popolo”, oggi sforna Suv (cominciano a vedersi anche da noi, inconfondibili per le dimensioni e la bandierina gialla e blu sulla targa) e poi camion e pullman gran turismo. Dalla terra al cielo, il gruppo Antonov, nato a Novosibirsk in Siberia ma trasferito a Kiev ai tempi dell’Urss, è uno dei pochi al mondo in possesso di software e hardware per l’intero ciclo produttivo – ideazione, progetto, realizzazione – degli aerei. Il più celebre, il colossale Mriya a sei motori, è stato distrutto dai russi nell’hangar dell’aeroporto di Hostomel il 27 febbraio.
L’Ucraina è divisa in due dal “sacro” Dnepr: a est risorse minerarie e industrie, a ovest le sconfinate coltivazioni agricole del “granaio d’Europa”, non meno importanti per un Paese che è il primo produttore al mondo di olio di semi di girasole, il quinto di mais, il settimo di grano, il terzo di patate, il sesto di barbabietole da zucchero. Decine di Paesi affermano di dipendere in modo decisivo dalle forniture ucraine di cereali, e per molti altri fra cui l’Italia tali approvvigionamenti – i cui prezzi sui mercati sono schizzati – sono comunque importanti.
Proprio grazie al suo solido tessuto industriale, agricolo e tecnologico, dopo le incertezze post-indipendenza (1991) l’Ucraina ha messo a segno ottime performance economiche, riprendendosi in fretta dalle crisi: quella finanziaria del 2010, quella connessa con l’Anschluss della Crimea del 2014, quella del Covid in cui ha perso meno dell’Italia. Nel 2021 ha avuto un rialzo di quasi quattro punti di Pil. Poi il disastro: il Fondo Monetario prevede una perdita di 35 punti nel 2022, la World Bank parla di un meno 45%, l’Economist del meno 47%. E la guerra non vuole saperne di finire.