Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2022  aprile 19 Martedì calendario

Pure l’uranio russo è difficile da sostituire

C’è un’altra fonte di energia che proviene dalla Russia, dalla quale l’Occidente è altamente dipendente ma per la quale sinora nessuno ha proposto l’embargo: è l’uranio. Mosca è un fornitore chiave per l’industria elettronucleare globale e sia l’Ucraina che gli Usa ne sono clienti. Sono 32 i Paesi dotati di centrali elettronucleari, circa 440, che producono il 10% dell’elettricità globale. Gli Usa hanno 93 reattori che producono il 20% dell’energia nazionale, seguiti da Francia (56 impianti da cui esce il 69% dell’elettricità francese) e Cina (53 reattori). L’Ucraina produce il 51% della sua elettricità dall’atomo, seguita da Ungheria (46%), Finlandia (34%) e Svezia (31%). La filiera dell’uranio civile è divisa in cinque fasi. L’uranio grezzo estratto (meno del 2% del volume totale) viene macinato e separato in una polvere chiamata “torta gialla” (yellowcake), poi trasformata in esafluoruro di uranio gassoso. Da questo si concentra l’uranio-235 solido, che è solo lo 0,7% di quello naturale e va arricchito sino a una concentrazione minima del 5% per ottenere le barre di combustibile. Il settore, altamente complesso, conta poche industrie presenti lungo tutta la filiera: la scelta dei fornitori, come la società pubblica russa Rosatom o quella francese Framatome, porta a dipendenze strategiche decennali.
La Russia non è il primo Paese estrattore di uranio base (ha solo il 5% del totale): il primato spetta al Kazakistan (40%) seguito da Canada (12,6%), Australia (12,1%) e Namibia (10%), mentre Usa ed Europa producono meno dell’1%. Ma Mosca controlla i corridoi attraverso i quali l’uranio kazako raggiunge l’estero. Soprattutto è leader mondiale nella produzione di esafluoruro di uranio (33% del totale globale) e della capacità di arricchimento (43%), seguita da Europa (33%), Cina (16%) e Stati Uniti (7%). Rosatom costruisce e rifornisce di combustibile reattori nucleari che esporta nella stessa Ucraina, in Ungheria ed Egitto. Anche gli Stati Uniti dipendono per il 16-20% del proprio fabbisogno annuale di uranio arricchito dalla Russia. Uno stop a Mosca potrebbe bloccare due progetti avanzati di reattori Usa, l’Xe-100 e il Natrium, ai quali serve uranio-235 arricchito al 20%, del quale Mosca è l’unico produttore. In caso di stop all’export, gli effetti non sarebbero immediati. I reattori sarebbero colpiti nel giro di 18-24 mesi, in base al decadimento e agli ordini delle loro barre. Ecco perché Canada e Australia progettano un aumento dell’estrazione dalle proprie riserve, sostenuti da alcuni investitori come Exor, la holding della famiglia Agnelli-Elkann, che è diventata azionista dei produttori canadesi Cameco e NexGen Energy, sui quali ha puntato centinaia di milioni di dollari. Anche l’Ucraina sta già lavorando, con l’azienda statunitense Westinghouse, per produrre uranio per i suoi reattori progettati dalla Russia in modo da sostituire il combustibile di Mosca. Prima dell’invasione, sette dei 15 reattori ucraini utilizzavano già barre prodotte in Svezia. Ma all’Occidente serviranno lustri e grandi investimenti per liberarsi dell’uranio russo: non a caso sinora nessun Paese lo ha inserito tra i prodotti sotto embargo.