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 2022  aprile 16 Sabato calendario

Biografia di Giulio Busi raccontata da lui stesso

Ci sono libri che si scrivono in situazioni tormentate. Che appartengano all’attualità o al passato remoto, poco importa. Ma ce ne sono alcuni che rappresentano un po’ un’eccezione, scritti in condizioni idilliache. Ho appena letto Uno (una parola o un numero su cui ciascuno può vantare un’esperienza personalissima) e vi ho riscontrato una felice calma, un insolito e placido trascorrere di idee, come se le parti che lo compongono corrispondessero pienamente all’autore. Che è poi un signore che da tempo desideravo conoscere, per ciò che scrive e per gli argomenti che affronta e che abbracciano tanto il mondo ebraico quanto quello indiano. Giulio Busi, nonostante la relativa giovane età (ha 62 anni), mi appare come un antico e romantico sapiente, un mite e tenace scalpellatore di quella roccia durissima che sono le antiche culture: «È un libro che mi è venuto di getto, durante l’estate caldissima di Maiorca, davanti al mare in compagnia di mia moglie Silvana. Sono condizioni idilliache che capitano raramente e che hanno aperto una “finestra” nei miei ricordi e nei viaggi di quattro decenni».

Hai sempre viaggiato?
«Moltissimo. Ora mi muovo continuamente tra Berlino, dove insegno, e l’Italia. Spezzoni di questo peregrinare sono affiorati alla mia memoria e li ho raccolti senza pormi problemi di ordine concettuale. Li ho “ancorati” ad aspetti diversi dell’Uno, assieme a qualche sogno e a letture di alcuni dei miei autori e libri prediletti: Plotino la Bhagavad Gita, Rilke».
Un itinerario speculativo che abbraccia filosofia, religione, poesia. Proprio la filosofia ha complicato il rapporto uno-molti.
«Non sono un filosofo perché mi distraggo sempre prima della meta. Tra me e i concetti ci sono i corpi, i colori, i suoni e così mi perdo per strada. Dei filosofi, per esempio di Platone o Plotino, mi incantano le metafore, le similitudini. Mi rendo conto che letta in questo modo, una bella pagina filosofica assomiglia pericolosamente a una pagina di un romanzo, magari a un romanzo cavalleresco».
O anche novecentesco.
«Senza dubbio».
In fondo stai suggerendo che per appropriarsi di quell’Uno che sfugge razionalmente occorre ricorrere al misticismo e all’esperienza poetica.
«Mistica e poesia mi danno il sollievo, spezzano il legame dei doveri e delle certezze. Mi permettono di vivere, almeno per poco, oltre la superficie. Di capire che possiamo essere in molti luoghi contemporaneamente, e che la parola “qui” ha un valore relativo».
Il silenzio aiuta questa condizione ubiqua?
«Penso di sì. Mi viene in mente John Cage quando insegna che il silenzio non esiste, perché la vita è battito del cuore, fluire del sangue e, quindi, “rumore”. Nel mio libriccino osservo però che nella nostra mente e nei nostri sogni possiamo sentire dialoghi senza suono e far battere il cuore senza il minimo rumore. Il silenzio non esiste in natura, d’accordo con Cage. Ma la nostra mente non è forse ancora più misteriosa e silenziosa della natura?».
Mistero e silenzio appartengono ai nostri sogni. Troppo spesso chiusi nel clamore della psicoanalisi. Perché dai così improtanza ai sogni?
«Ti confesso che da un paio di anni ho preso a trascriverli. Qualche volta, per lo più verso mattina, subito dopo un sogno mi alzo e lo scrivo, il più precisamente possibile».
Che impressione ne ricavi?
«Rileggendolo in seguito quasi sempre negherei di aver mai fatto io quel sogno, se non fosse per la data e per la mia scrittura».
Freud ti aiuta?
«L’ho letto di un fiato, in traduzione tra i sedici e i diciassette anni e poi l’ho riletto in tedesco. Mi sembra un ottimo narratore, uno scrittore spesso ironico. Ma i sogni credo sono un’altra cosa. Molto meno lineari, meno spiegabili, più profondi di quanto suggerisca la psicoanalisi».
Più prossimi a Jung?
«Con Jung ho meno familiarità e mi sembra uno scrittore di qualità più modesta del vecchio Sigmund. Il bello dei sogni è la loro gratuità; non credo si possano riversare nelle azioni come l’acqua che dalla bottiglia riempie il bicchiere. Si spandono ai lati, vanno persi, evaporano. E il bicchiere dell’azione rimane vuoto. Oppure si riempie a dismisura di sogno, il che è forse anche peggio».
Parli a volte di tuo padre e del fatto che ti viene in sogno. Che persona è stata?
«L’ho amato molto e ancora oggi, in una situazione difficile, penso a cosa avrebbe fatto e detto lui nelle stesse circostanze. Da ragazzo ero molto di sinistra e contestatore. Non era d’accordo con le mie scelte politiche e soprattutto non voleva che mi mettessi nei guai. Erano gli anni di piombo. L’atmosfera molto tesa. Per fare un solo esempio, nel 1980 mi trovavo, del tutto casualmente, alla stazione di Bologna una decina di minuti prima dello scoppio della bomba. Con lui abbiamo fatto qualche litigata epica, ma è la persona che più mi ha influenzato nella mia adolescenza. Si occupava di affari e di economia, ma rispettò e sostenne la mia decisione quando volli a tutti i costi studiare una materia tanto astrusa come le lingue semitiche».
Che bambino sei stato?
«Se ripenso ai miei primi anni li vedo lenti, ordinati, molto più sobri di ora. Ho passato molto tempo in compagnia di una nonna, entrambi i genitori lavoravano fino a tardi. Giocavo da solo in un grande giardino e ho imparato presto a leggere. Divoravo qualsiasi libro mi capitasse a tiro».
Accennavi alla passione per le lingue semitiche.
«Ho studiato l’arabo, l’ebraico e lingue orientali. L’arabo mi piaceva molto, poi l’ebraico ha avuto il sopravvento. Non era solo Oriente, era Europa, Rinascimento, Novecento, inquietudine, persecuzione. Quando ho messo piede a Gerusalemme ho capito che quella lingua e quella cultura avrebbero segnato per sempre , e profondamente, la mia vita».
Hai radici ebraiche?
«Non sono ebreo. Penso che sia bello studiare dai margini, con profonda passione, una cultura che, a sua volta, è sempre stata ai margini di quelle maggioritarie».
Stare ai margini di cosa?
«Siamo tutti ai margini. Della vita, di noi stessi, della morte, dell’essere».
E l’India, la tua lettura della Gita perché?
«La Gita è un testo centrale nella mia formazione. La prima volta che l’ho avuto in mano è stato in Kerala, in un piccolo villaggio allora difficilissimo daraggiungere. Leggevo le parole come fossero perle di una collana, come mia nonna faceva passare tra le dita i grani del suo rosario. Poi ho provato a mettere in pratica quello che avevo letto. Un po’ ci sono riuscito. Per la maggior parte, sono ancora un principiante».
Il Dio di Mosè tende alla liberazione di un popolo, il Dio della Gita rappresenta l’uscita dal dolore. C’è relazione tra libertà e dolore?
«Ci dovrebbe essere, questa relazione. Ma quando sei inchiodato in una camera d’ospedale e pendi dalle labbra dei medici, il dolore annulla ogni altra cosa, ogni pensiero, ogni respiro di libertà. L’ho vissuto in prima persona, durante la malattia impietosa e veloce che ha strappato da me la mia prima moglie. Per trasformare il dolore in libertà è necessaria molta, moltissima forza».
Mi ha colpito l’accenno che tu fai a “It’s Torn” che Leonard Cohen dedicò a un’amica scomparsa. Che cosa vedi al di là di una canzone?
«Cohen è un autore che ascolto molto spesso, quasi una colonna sonora delle mie giornate e dei miei lunghi viaggi in auto. La canzone alla quale ti riferisci è molto profonda. Un piccolo capolavoro offerto senza tanti fronzoli, con semplicità, come sapeva fare lui. Anche Hinneni (Eccomi) è molto ebraica e molto bella. Mi fai venire in mente The Story of Isaac, dolente e terribile. Per come la ricordo, Cohen metteva in guardia dagli altari su cui si compiono i sacrifici e i rituali. The story of Isaac è del 1969, credo che sullo sfondo vi sia il Vietnam, l’antimilitarismo, e una polemica generazionale. Cohen riesce a rivisitare la storia biblica del sacrificio di Isacco senza rinunciare allo scontro. È anche forse innanzitutto una canzone autobiografica, dovuta alla perdita del padre quando aveva nove anni».
A cosa si deve la tua passione per il Rinascimento?
«È un amore più che trentennale. L’infatuazione risale agli anni di liceo. Lessi I misteri pagani di Edgard Wind. Portai il libro a un’interrogazione di filosofia e il professore, che non l’aveva letto, liquidò il misticismo di Pico come una solenne sciocchezza e mi affibbiò un pessimo voto. Ho impiegato i miei anni di maturità per dimostrare non solo che Wind aveva ragione, cosa peraltro risaputa, ma che si poteva trovare un Rinascimento ancora più “irregolare”, molto meno impaludato e retorico di quello che si studiava quando ero giovane».
Maghi, indovini, astrologi attraversano quel periodo. Tu hai scritto un libro sulla Divinazione che forse andrebbe letto insieme a quest’ultimo dedicato a Uno.
«Di certo li ho scritti in successione. E sono entrambi profondamente legati al mio mondo interiore».
La divinazione è uno sguardo sul futuro. Ma se proviamo a vedere nitidamente il futuro, rischiamo di perderlo. Perché?
«Si tratta di aguzzare gli occhi nella penombra. Di abituarsi alla penombra che in realtà è la nostra condizione abituale. La penombra è bella solo se si riesce ad accettarla. E per questo il futuro è un amante che non si lascia quasi mai vedere».
Ti definisci un “magazziniere” di storie, ma in fondo sei anche un nomade. Come fanno le due cose a convivere?
«Ogni sera il nomade monta la sua tenda. Ogni mattina, rimette a posto le sue cose e riprende il cammino. Bisogna essere molto ordinati per portare con sé la propria casa. E l’ordine è la prima virtù di un magazziniere».
Nelle tue storie c’è molta letteratura e gli scrittori che prediligi. Kafka, per esempio.
«Scende nell’anima come in una catacomba. Senza fiaccola».
Proust?
«Tutta la sua intelligenza è un incubo. Ogni incubo è la sua intelligenza».
Joyce?
«Avere tempo per rileggerlo. Rileggerlo per avere tempo».
Dante?
«Dolce amante di una patria amara. La nostra».
Che genere di libri ti piacciono?
«Prediligo i libri che seguono passo dopo passo la vita, come i Diari o gli Epistolari. Quando viviamo non possiamo sapere cosa accadrà il giorno dopo. Mi piacciono i libri che sono, o sembrano, scritti dal caso. E che si possono cominciare in qualsiasi punto, senza ordine, proprio come la vita stessa».
Cosa pensi del sodalizio tra Walter Benjamin e Gershom Scholem?
«Scholem è stato cruciale per la mia formazione accademica, come storico del misticismo ebraico. Ma il più straordinario e geniale tra i due è senz’altro Benjamin. È lui che a tratti arriva a vette assolute di poesia. Di quella poesia, così difficile, che è di casa nei libri e fuori luogo nella vita».
Chiudi “Uno” accennando a una stella. A me è venuta in mente “La stella della redenzione” di Rosenzweig. Che posto occupa quel libro?
«La frase “Una stella sarebbe meno sola” l’ho sognata letteralmente. Mi sono alzato e l’ho trascritta, poi mi sono riaddormentato. Quando l’ho riletta ho pensato che fosse linguisticamente un po’ sfalsata e che proprio per questo andasse bene per il libro. Rosenzweig l’ho letto, apprezzato e usato per le mie lezioni universitarie. Mi ha interessato soprattutto la sua traduzione della Bibbia in tedesco, assieme a Martin Buber, una forma di meditazione mistica sul rapporto tra la sacertà dell’ebraico e la dicibilità del mondo».
Nel tuo mondo che posto occupa Berlino?
«Berlino è la mia città e l’Italia è il mio Paese».