Curatore all’Hangar Bicocca di Milano e poi alla Tate Modern di Londra, dal 2020 è il direttore della Haus der Kunst di Monaco di Baviera: ha preso il posto del mitico Okwui Enwezor, primo africano a firmare una Biennale di Venezia (2015), scomparso prematuramente nel 2019. Ma il suo programma per rilanciare la casa dell’arte bavarese, costruita durante il Terzo Reich, parte davvero oggi – con la decana giapponese della scultura immateriale Fujiko Nakaya – dopo due anni di pandemia e un mondo dell’arte alle prese con la cancel culture e le sue derive.
Ha sentito il peso di dover fare i conti con la storia di un edificio nato in pieno nazismo?
«All’inizio no. In Italia siamo cresciuti con questo tipo di edifici. E poi mi sono sempre misurato con la monumentalità: sia all’Hangar Bicocca che alla Tate Modern, senti ancora la presenza della comunità operaia che aveva fatto funzionare lo spazio in passato. Stando qui a Monaco, ho compreso meglio la cultura tedesca e bavarese, capendo che cosa deve rappresentare la Haus der Kunst: un vero monumento pubblico, fortunatamente senza una sua collezione, ma con una storia che si può ogni volta ridisegnare grazie a un programma di eventi, generando una nuova memoria».
Lei è stato nominato nel 2020, in mezzo ci sono stati due anni di pandemia. Il modo di progettare le mostre è cambiato?
«Sono stato scelto per realizzare un programma che prevedesse una radicale trasformazione nel fare mostre: la pandemia ha solo rallentato il processo. Con Fujiko Nakaya tutto quello che si trova esposto è prodotto localmente.
Questo perché – l’ho visto alla Tate – un’istituzione crescendo prende una connotazione inevitabilmente turistica, diventa una macchina di produzione di capitale e vive di quello, ma rischia di perdere il contatto con il luogo in cui si trova, che è fondamentale. Se lavoriamo con gli oggetti, rendiamo tributo ai collezionisti locali. E, se lavoriamo con gli artisti, prendiamo quasi tutto dal loro studio, facendo un solo movimento, riducendo l’impatto».
Tra gli intenti del suo programma, si legge che c’è quello di «trasformare il modo in cui la storia dell’arte è considerata».
«Quando si pensa alle neoavanguardie si citano movimenti occidentali, patriarcali, maschili.
Nell’Arte Povera, c’è solo una donna: Marisa Merz. Ma, se facciamo un ragionamento interdisciplinare, il discorso cambia. Tra minimalismo e process artperché non inserire Fujiko Nakaya che lavora proprio sul processo artistico e non sull’oggetto? Quando si parla di minimalismo perché non citiamo anche Charlotte Posenenske, invece dei soliti Sol LeWitt, Carl Andre e Donald Judd?
Quello che voglio dire è che si possono aprire le categorie in modo fertile, contribuendo a riscrivere la storia, creando altre genealogie».
Quindi si pone il problema di dare più spazio alle artiste e alle cosiddette minoranze, che poi sono minoranze solo rispetto a noi occidentali?
«Me lo devo porre. Ma se occorre parlare di questo, dobbiamo farlo senza senso di colpa. Rispondo al problema con la linea di programma che si chiama “Tune”, dedicata al suono e alla musica. Mi sembra più rilevante invitare una giovane musicista di Marsiglia come Christelle Oyiri perché porti il suo mondo multiculturale al pubblico attraverso i live. Faccio il possibile per far viaggiare le persone e generare incontri, più che gli oggetti».
Gli oggetti non le piacciono. Che cosa pensa degli NFT e della smaterializzazione?
«Gli NFT mi interessano perché sono un potenziale medium per archiviare, raccogliere, comprimere storie naturalmente evanescenti. Se dovessimo fare una collezione esperienziale di quello che si fa qui, quale sarebbe lo strumento più duraturo? Gli NFT? Stiamo lavorando in modo scientifico per capirlo. Il mercato invece non mi interessa».
Da tempo guarda l’Italia dall’esterno. Come le sembra il paesaggio del contemporaneo alla vigilia della Biennale?
«La Biennale è un tesoro troppo importante per poter essere sottovalutato. Rappresenta un asset inimitabile. Il passo successivo sarebbe generare fondi per trasformare effettivamente la scena italiana. Nelle produzioni artistiche giovanili il Paese è ancora leggermente fuori registro rispetto al paesaggio internazionale».
Che cosa intende?
«Credo sia indietro dal punto di vista della formazione. Ginevra, Losanna, Londra, Basilea vantano scuole che in Italia mancano. In Nord Europa si assumono pensatori liberi, radicali, eclettici e si elargiscono borse di studio generose ai meno privilegiati.
In Italia abbiamo avuto per vent’anni il caso virtuoso di Fabrica di Treviso: la formazione di Saodat Ismailova, l’unica artista uzbeka che ora esporrà sia alla Biennale di Venezia che a Documenta viene da lì».
Quali sono le mostre che non si faranno alla Haus der Kunst?
«Non si faranno mai mostre pensate come blockbuster. Ma si faranno mostre che vogliono essere blockbuster, questo è l’obiettivo. Ci presentiamo anche con nomi straordinari poco noti, o molto conosciuti nella nicchia, come Dumb Type, gruppo teatrale di danza radicale che ora rappresenta il Giappone alla Biennale di Venezia».
Quale eredità raccoglie da Okwui Enwezor?
«Tutto il programma pensato da Okwui è in piedi. In settembre, la mostra di Joan Jonas sarà un tributo a lui. Resterà una figura estremamente ispiratrice. Lo sforzo adesso è provare a fare il passo successivo: immaginare il mondo dell’arte dopo la decolonizzazione. Vogliamo aprire le scatole della storia dell’arte, senza crearne di nuove, ammorbidendo cliché e avviando conversazioni transnazionali e transtoriche che sono sicuro Okwui avrebbe apprezzato».
Che ruolo deve avere l’arte in questo momento?
«L’arte è uno strumento per uscire dagli stereotipi. Lavoro in un posto dove un tempo si faceva propaganda razzista: mi interessa come l’arte possa essere uno strumento di costante messa in discussione della propaganda».