Robinson, 16 aprile 2022
L’enigma Giotto
Giotto è il simbolo stesso della novità nelle arti figurative. Per gli antichi scrittori fu Giotto, primo fra tutti in Occidente tra fine Duecento e primo Trecento, a liquidare lo stile bizantino per quello all’epoca definito “romano”, fondato sul disegno geometrico/ prospettico, sul recupero dell’idea classica dell’arte che imita convincentemente la realtà, sul conseguente carattere narrativo dell’oraziana ut pictura poesis. Questo è Giotto nel racconto delle fonti e nella consacrazione dantesca della Divina Commedia. Una tradizione ininterrotta fino ai nostri giorni. Eppure su Giotto si scrive poco e il libro di Alessandro Masi, L’artista dell’anima. Giotto e il suo mondo ( Neri Pozza) ripropone cognizioni e meditazioni latenti in ognuno di noi ma da qualche tempo accantonate dal dibattito storico- artistico.
Non è un romanzo storico, pur fitto di sortite narrative, e non è un saggio filologico e critico di cui, pure, ha tutti gli elementi. È un testo lineare e consequenziale, dalla nascita dell’artista con le leggende che la circondano, alla morte con un solenne e commovente bilancio di un’esistenza gloriosa destinata a fama imperitura. Il libro parla a più voci: quella della nostra contemporaneità sobria e vigilata; quella dei tempi di Giotto stesso intarsiata di evocazioni e citazioni di letterati, cronisti, poeti, filosofi e commercianti, teologi e amministratori; quella tecnica del mestiere dell’artista sui materiali, sulle procedure, sulle pratiche di bottega; quella dei linguaggi specifici dell’epoca, della quotidianità come della Dottrina.
Masi delinea un presupposto centrale da cui si dipartono le linee portanti del libro, rimarchevole nella scrittura e cospicuo nei contenuti: esiste una triade di personaggi interferenti l’uno con l’ altro, che generarono una cultura e un comportamento inattingibile prima di loro. E sono San Francesco d’Assisi, Dante Alighieri e Giotto appunto. Secondo Masi, quel criterio di “modernità” che in parte almeno è ancora il nostro, scaturì da queste tre gigantesche figure, tra loro convergenti per metodo e risultati. Scrutare nelle nostre anime. Certo è un’ispezione che viene da lontano, da Confucio, Buddha, Socrate, Seneca, Gesù Cristo, Sant’Agostino, Maometto e ognuno di noi sa da chi. Ma per gli occidentali sono i viaggi di Marco Polo a portarci dentro l’età di cui Masi ci racconta con acume, garbo e onestà di grande storico.
Che Giotto esercitasse il prestito a usura, si sa e Masi ce lo conferma; che il pittore eccelso non avesse simpatia per Dante Alighieri, è plausibile e Masi lo commenta da par suo; che Giotto abbia inventato l’iconografia francescana per come la conosciamo oggi, Masi lo spiega esaurientemente esaminando quel tipo di arte, naturalistica e spirituale al contempo, con dovizia di argomenti ben fondati. Il San Francesco di Giotto è quello del Cantico delle creature in transito su questa terra, fatale andare che mentre si compie ci crea e ci disfa. Nella esegesi di Masi, Dante ci racconta a noi stessi facendoci parlare con lui, a compimento del metafisico radicamento francescano all’esistenza, cui Giotto dà forma visiva.
Masi, storico dell’arte di primissimo piano nel nostro Paese, è il Segretario generale della Dante Alighieri, quindi emblematicamente legato ai tre grandi che il libro celebra. Parlano, questi sommi maestri e Masi ce ne parla. Giotto ha superato il suo maestro Cimabue ma lo rispetterà per tutta la vita. Concepirà la genesi delle storie francescane nella Basilica superiore di Assisi, affrescherà la Cappella degli Scrovegni a Padova, farà opere eccelse a Milano e a Napoli ma tutto è perduto, lavorerà al campanile di Santa Reparata come architetto, scultore, disegnatore.
Alla sua morte sarà consegnato alla storia quale supremo iniziato. Merito notevole di Masi è averne delineato la vicenda senza retorica e senza soprassalti temporali. Sembra di poter conversare con lui, conscio del suo immenso valore, infaticabile battutista, orgoglioso del dominio assoluto del mestiere ma profondamente immerso nella dialettica intellettuale del suo tempo, tra i Fedeli d’ Amore e la progressiva scoperta della dimensione tecnico- scientifica dell’arte pittorica. Il miniatore Oderisi da Gubbio incontra Dante in Purgatorio, nel giro dei Superbi che camminano piegati sotto il peso di pesanti pietre. Oderisi impartisce a Dante una lezione sull’umiltà, dimostrandosi pentito delle sue cattive attitudini in vita: «Credette Cimabue ne la pittura/ tener lo campo e ora ha Giotto il grido/ sì che la fama di colui è scura». Masi dubita che Dante fosse così sincero e affettuoso verso Giotto nello scrivere quei versi nel momento dei primi trionfi del pittore a Padova. Mai esaltare troppo chi ha tanto successo da farci ombra nel nostro stesso mestiere!