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 2022  aprile 16 Sabato calendario

A casa di Bernardo Bertolucci

Al numero 3 di via della Lungara, a Roma, c’è un via vai di ragazzi di tutte le nazionalità. Gli studenti della John Cabot University passano veloci, strisciando il tesserino sulla macchinetta all’ingresso, quasi sempre da soli, assorti, frettolosi. Pochi fra loro sanno che quell’edificio, il palazzo Torlonia alla Lungara, per tutti gli anni Sessanta è stato utilizzato dai discendenti della principesca famiglia per ammassare centinaia di statue, busti e bassorilievi greci e romani, la più grande collezione privata d’arte antica. E che poi fu utilizzato come residenza per inquilini eccellenti di passaggio nell’Urbe: negli appartamenti dove oggi dormono e studiano i ragazzi della John Cabot, hanno alloggiato Fernanda Pivano, Gregory Corso, Giorgio Agamben, Ginevra Bompiani, Ivan Cotroneo, Gianluigi Melega, Chiara Caselli, Umberto Contarello, una sorta di piccola “comune” intellettuale intrisa di giardini e cortiletti, immersa nel silenzio malgrado si trovi a un passo dai localini di Trastevere e dal tremendo flusso automobilistico del lungotevere. L’ultimo di questi pensionanti illustri è stato Bernando Bertolucci, con sua moglie Clare Peploe. In questo piccolo borgo esotico bloccato nel tempo, il regista di Novecentoha abitato dall’inizio degli anni Settanta fino al 2018, l’anno della sua scomparsa. La moglie Clare, che lo ha seguito nel giugno scorso, amava andare a passeggiare ogni giorno nell’Orto Botanico, giusto dietro l’edificio. Entrambi vivevano appassionatamente il quartiere: un mese prima che lui morisse, mi capitò di vederli in una trattoria all’aperto a piazza Farnese, circa dieci minuti dalla loro abitazione; lei su una sedia, Bernardo sulla famosa carrozzina, incuranti di possibili ammiratori e richiedenti di selfie.

L’appartamento dei Bertolucci è, per diversi motivi, molto diverso da come ce lo si aspetterebbe. Intanto è avvolto nei colori. «La casa di Clare e Bernardo», hanno scritto le sceneggiatrici Ilaria Bernardini e Ludovica Rampoldi, fra le ultime ad aver frequentato la coppia, «ha i colori di molto cinema di Bertolucci: senape, ruggine, gli arancioni della Cina, il deserto, il cappotto di Marlon Brando e i muri dell’appartamento di Parigi » . Meglio non si potrebbe dire, ma andiamo in dettaglio: quello color ruggine, quasi dorato, è l’ingresso, il salone è diviso fra giallo e grigio, la camera da letto è tagliata longitudinalmente fra un rosa/ arancio e un azzurro, la cucina ha un arancione deciso, nella stanza che il regista usava per la fisioterapia predomina il verde.
Ma la cosa che soprattutto non ti aspetti è che la casa di una star internazionale, il premio Oscar che riceveva a cena Wim Wenders, Francis Ford Coppola, Roberto Benigni, Robert De Niro, Marisa Paredes e John Malkovich, sia tutt’altro che lussuosa: non ha la classica terrazza della haute capitolina, non vanta nemmeno un balcone. Al piano sottostante c’è un giardino con palme e un’amaca, che fanno venire in mente Il tè nel deserto, ma fa parte di un appartamento affittato ad altre persone. È più shabby che chic, come tante case in affitto, amministrate con la consapevolezza di muoversi dentro ambienti che non sono definitivi né tramandabili. Una casa però non trasandata ma accogliente, vivace, sorprendente, dove la collocazione dei mobili e l’accumulazione degli oggetti ha il segno felice della vitalità, dei lavori perennemente in corso, della sovrapposizione allegra di stili, epoche, umori.
Le case, nei film di BB, sono sempre state decisive: l’appartamento di Ultimo tango a Parigi, ovviamente, ma anche la fattoria di Novecento. L’universo bertolucciano ha alternato giudiziosamente storie enormi e vicende intime, kolossal di amplissimo respiro e pellicole più a misura d’uomo, ma è un fatto che dopo Piccolo Buddha il regista abbia deciso di puntare soprattutto sugli interni, traslocando dalla casa colonica di Io ballo da sola alla dimora dannunziana dell’Assedio, via via chiudendosi sempre di più, dall’immobile parigino di The Dreamers fino allo scantinato dell’ultimo Io e te. Di due personaggi che si muovono in un appartamento di tre stanze avrebbe parlato The Echo Chamber, il film di cui Bertolucci aveva appena finito la sceneggiatura, e che forse un giorno vedremo in sala con la firma di un altro regista.


In questa progressiva riduzione di spazi c’entra senz’altro la malattia di Bernardo, la sua difficoltà personale a muoversi, ma doveva esserci anche un’inclinazione schiettamente domestica, una tenerezza speciale nel ritrovarsi fra mura familiari, che è forse il motivo che rende la casa di via della Lungara ancora così viva e palpitante.
Gli invitati di casa Bertolucci conoscono soprattutto il salone, trasformato all’occorrenza in una sala di proiezione per vedere insieme film e soprattutto serie tv, grande passione bertolucciana degli ultimi anni; il regista prendeva posto su una chaise longue dalla quale comandava tutto tramite computer, si oscuravano le finestre e ci si immergeva nel liquido amniotico del cinema. Il videoproiettore in realtà è alloggiato nella stanza adiacente, la cucina (forse anche per evitare che un pur minimo ronzio rompesse l’armonia dello spettacolo): il fiotto di immagini usciva da un buco nella parete, proprio come da una cabina di proiezione, per depositarsi sul muro di fronte, lasciato appositamente libero da quadri e mobilio.
In questo salone troneggia un’enorme acquaforte di Julian Schnabel, due metri d’altezza, intitolata guarda caso
Le Tango,
ma ogni oggetto avrebbe bisogno di un sapiente cicerone: il cuscino con i Beatles di
Sgt. Pepper,
le teste di Stanlio e Ollio in terracotta, due piedini scolpiti in legno di fattura probabilmente indiana. A portata di mano c’è una bella raccolta di cataloghi d’arte, con testi dedicati ad Arcimboldo, Ligabue, Escher, Bernini, Corot, Gaudí, Picasso, Bacon, El Greco, Géricault, insieme a qualche libro di cinema formato extralarge (la storia della Mgm, Buñuel, un volumone celebrativo di David O’Selznick). Dalla parte opposta della sala, una libreria tiene insieme i cd: Händel, Mozart, Schubert ma anche Caetano Veloso, Kate Bush, Talking Heads, Avion Travel, David Gilmour, Leonard Cohen, John Coltrane, Chet Baker... Poggiati davanti, ci sono i cofanetti dvd con le stagioni complete de
I Soprano
e 24.
Questo elencare potrebbe sembrare indiscreto, una mancanza di riguardo nei confronti dei padroni di casa, ma è la stessa casa di Bertolucci a offrirsi generosamente allo sguardo, a invitare a scoprire, a innescare e soddisfare curiosità, senza superbie o sopraccigli inarcati. Ed è una sorpresa ancora più commovente questo suo essere accogliente anche in assenza dei suoi anfitrioni, come se Bernardo e Clare fossero solo in un’altra stanza, a prendere una delle bottiglie di vino che sono ancora allineate nello sgabuzzino vicino al corridoio, o un libro controverso su cui conversare.
Ecco, i libri: di quelli ovviamente ce ne sono tanti, infilati un po’ ovunque. Innanzitutto all’ingresso, dove c’è stato un tentativo di costringere il caos creativo della coppia in un ordine almeno alfabetico, e dove Camilleri si ritrova quindi a fianco di Camon e Canetti, ma dove l’occhio è irresistibilmente attratto da due bizzarrie. La prima è un’opera di Dora Tass, che rappresenta un telefono d’altri tempi, costituito da una cornetta vera sospesa per aria e da un corpo centrale che è invece un verdognolo impalpabile ologramma. L’altra è la porta che dà accesso al salone, che è “a scomparsa” dentro la parete ed è interamente ricoperta da un collage del fumettista Jules Feiffer, con il disegno di un gruppo di spettatori, inondati da una serie di slogan cinematografici, che guardano adoranti verso l’alto (uno schermo?).
Dopo i libri, le foto: a parte quelle raccolte dentro gli album, ci sono quelle incorniciate in corridoio, poggiate sui libri, incastrate nell’angolo interno di un quadro. Nella classifica dei più ritratti vince la famiglia, a cominciare dal padre Attilio e dalla moglie Clare. Dopo, è il cinema a prevalere: degli amici e colleghi il più rappresentato è Pasolini, soprattutto dal set di
Accattone,
il film per il quale Bertolucci fece da aiuto regista, imparando su un campo eccezionale i primi rudimenti della professione. In corridoio, vicino a una piccola foto della nonna australiana ( Evelyn Mulligan, la madre di mamma Ninetta) c’è la copertina di
Time
con Bertolucci “Signor Oscar” e le nove statuette dell’Ultimo
imperatore
( una di quelle è ancora nello studio, poggiata sulla libreria come un soprammobile qualsiasi) e, sotto, un bellissimo scatto in bianco e nero che ritrae i volti di Maria Schneider e Dominique Sanda sul set di
Novecento,
poco prima che la Schneider, intimidita dal robusto cast internazionale, si ritirasse lasciando il ruolo di Anita a Stefania Sandrelli.
E poi le collezioni di cappelli: quelli sbarazzini, da baseball, e quelli più spettacolari, con le tese ampie, divisi e accatastati in due ambienti diversi. Appesi alle librerie, sventolano un paio di citazioni stampate su carta: una in inglese di Henry James (traduco: «Lavoriamo nell’oscurità — facciamo quello che possiamo — diamo ciò che abbiamo... il nostro dubbio è la nostra passione e la nostra passione è il nostro lavoro. Il resto è la follia dell’arte») e una, ancora più significativa, firmata Bernardo Bertolucci: «Il cinema lo chiamerei semplicemente vita. Non credo di aver mai avuto una vita al di fuori del cinema; e in qualche modo è stato, lo riconosco, una limitazione».
In effetti, qui dentro la vita è talmente mescolata e intrisa di cinema da esserne indistinguibile, la vita privata e quella professionale si mescolano e sovrappongono, senza mai entrare in collisione: in sala c’è un’abat jour un po’ sghemba apparsa nell’Assedio, e alcune vedute dipinte da Matthew Spender e sua moglie Maro Gorky (figlia di Arshile), la coppia che con la sua comunità nel Chianti fornì a Bertolucci ispirazione per Io ballo da sola. In alto, è appeso il quadro che Goliardo Padova dipingeva in riva al fiume durante una scena di
Novecento.
Dentro un ritratto di Attilio Bertolucci dipinto da Carlo Mattioli è stata infilata una fotografia che ritrae Bertolucci e Ryuichi Sakamoto mentre lavorano alle musiche dell’Ultimo imperatore.
La sala è l’unico ambiente a cui di solito avevano accesso gli ospiti. Il resto è quindi ancora meno noto: la camera da letto è matrimoniale a letti uniti (Bernardo e Clare hanno sempre dormito insieme), e accanto a quello di lui c’è un’altra pila di volumi. Qui, nuova sorpresa, il libro in cima è l’autobiografia francese di Adriana Asti, prima moglie del regista, conosciuta in Accattone e poi diretta in Prima della Rivoluzione (disperse per le stanze ci sono almeno due bellissime foto insieme).
In fondo, sancta sanctorum, c’è lo studiolo personale di Bernardo con altre librerie cariche di libri, soprattutto di cinema, più qualche fumetto ( Tex, DylanDog). Altre foto di cineasti, da soli o con lui: Jean Renoir, Orson Welles, ancora Adriana Asti, ancora soprattutto Pasolini. Un quadretto con una riproduzione della Hollywood Walk of Fame, quando nel 2013 fu deciso di aggiungere anche la stella di BB. Un paio di scaffali sono solo per i film del regista, edizioni italiane e non, in dvd e in vhs. Le vere meraviglie sono i dattiloscritti legati ad anelli con i copioni di film realizzati e, sullo scaffale più in alto, quelli solo sognati: ci sono diverse versioni di Heaven and Hell, il film su Gesualdo da Venosa che Bertolucci voleva girare subito dopo L’assedio, e il mitico noir Red Harvest da Hammet, al quale il regista pensò per tutti gli anni Settanta, sperando di farlo interpretare a Jack Nicholson o Robert Redford, e infine messo da parte per realizzare Tragedia di un uomo ridicolo.
I marmi della famiglia Torlonia ci sono ancora, accumulati nei sotterranei dello stabile, pronti a uscirne per operazioni di restauro o mostre d’arte antica. Casa Bertolucci invece fra qualche mese non ci sarà più, i suoi arredi smantellati, i documenti e le foto messi dentro scatoloni. Oggi l’eredità dei Bertolucci è amministrata da una cugina, Valentina Ricciardelli, designata per lascito testamentario a presiedere una Fondazione in fase di organizzazione. Alcune carte saranno scorporate, quindi riunite a Parma a quelle del padre Attilio e del fratello Giuseppe, il resto sarà riallocato in una sede romana ancora da definire.
Gli studenti della John Cabot stanno gradatamente prendendo possesso della vecchia comune intellettuale, destinata per i prossimi quarant’anni a fare da campus universitario: all’interno 41 di Palazzo Torlonia arriveranno altri ragazzi solitari e un po’ frettolosi, pronti a strisciare il tesserino all’ingresso del residence, e dormiranno ignari nel luogo in cui uno dei registi più amati e applauditi al mondo ha scritto e inventato, vissuto e amato. Forse a Bernardo Bertolucci questa invasione in fondo non sarebbe dispiaciuta e avrebbe reagito con uno dei suoi sorrisi sardonici, come il monaco tibetano del Piccolo Buddha che cancella con un solo gesto il mandala di sabbia realizzato dopo giorni di lavoro.