La Stampa, 16 aprile 2022
Intervista a Samuele Bersani
«Che schifo l’artista supremo io lo distruggo vedrai», dice il giornalista disgustato dopo l’intervista, peccato che poi sia lui a essere licenziato dalla rivista: «Scusa ma come l’hai trattato? Sai che l’artista ci serve». Strana storia, o meglio: strano che a raccontarla mettendola in musica sia un artista come Samuele Bersani, tutt’altro che altezzoso ed etereo. Bersani dice cose: le canzoni del suo ultimo album, Cinema Samuele, sono da ascoltare e da vedere, chiudi gli occhi e comincia il film - come Mastroianni anni fa, già allora era così. Un album uscito in piena pandemia e che solo ora può suonare con tutta la band, nel tour che proseguirà anche nell’estate, e partito dalla sua Bologna, sua anche se non è sua, in questo anno in cui gli anni di musica diventano 30 da quando Chicco e Spillo schizzavano a tuttamanetta, e in questa città in cui dopo allora «ho scritto praticamente tutte le canzoni». Bersani dice cose anche quando parla, non schiva le domande, questo argomento sì, questo no.
Che sollievo: qualcuno che non se la prende con i giornalisti.
«No, anzi, io mi metto nei panni di chi fa il vostro lavoro, che si trova a fare domande concrete a qualcuno che è astratto».
Allora andiamo sul concreto: in Cinema Samuele una canzone si intitola Il Tiranno. Nel pezzo è una metafora, ma ecco che oggi siamo davanti a un tiranno in carne e ossa, come vive questa guerra?
«Il tiranno non lo vediamo solo oggi, fino a che non è cambiata l’amministrazione il signore che c’era prima negli Stati Uniti era sulla strada per diventare un vero tiranno, si è visto al Campidoglio. Ma l’America ha un sistema che la protegge da chi ha la tentazione di fare tutto da solo. In Russia invece tutti quelli che non vanno d’accordo con lui, Putin li fa fuori. Se mi metto nei panni di chi è stato invaso sono arrabbiato come il primo giorno, ma vedo che continuando ad armare non facciamo altro che prolungare questa guerra. È vero che per difendersi non gli puoi regalare caramelle, Ma io ho la bandiera della pace che svolazza, non posso essere troppo d’accordo con la consegna di queste armi, mi sembra che la strada della diplomazia non stia facendo il suo corso».
In un post per ricordare Lucio Dalla a 10 anni dalla morte ha scritto che le sue parole «sapevano sempre costruire orizzonti immediati» e che «mai come oggi in questi giorni di puro terrore universale, mi avrebbero potuto essere d’aiuto». In che modo?
«Lucio era un grande affabulatore, era di conforto parlare con lui. Consiglio a tutti di vedere su Youtube una conversazione con Bettino Craxi, Ronchey, Guttuso e Strehler sulla vicenda euromissili. Lucio tiene testa a Craxi, sapeva essere semplice e diretto. Sono molti i momenti di fragilità del sistema per cui parlare con lui sarebbe di conforto, anche se l’ultimo messaggio che mi mandò è, testuale, "Viviamo in un mondo di merda": era un illusionista delle parole, ma non era un illuso».
Ne Le Abbagnale parla dell’amore tra due donne, l’ha scritto tre anni fa e poi il tema dei diritti si è imposto. Profetico?
«Il mio mestiere ti consente di avere le antenne dritte, il tema è nell’aria da tanto e ancora ieri ho letto che una madre ha chiamato l’esorcista per la figlia lesbica: ma oggi fortunatamente c’è una libertà che quando ero ragazzino io non ci sarebbe mai stata».
In Scorrimento verticale parla invece di social: «Non ho più mosso un dito a parte questo che sta sullo schermo»: è qualcosa che ha vissuto?
«È una dipendenza: io ne sono uscito quando, leggendo le statistiche di uso del telefono, mi sono reso conto che avevo battuto, ma di tanto, il record precedente, che era solo della settimana prima, nel secondo lockdown. I social li uso per leggere e rispondere, ma non sto lì ogni giorno ad autocompiacermi, a dirmi quanto sono bravo, quanto sono bello, guardate cosa sto facendo».
In Distopici dice «Avremmo fatto insieme un figlio ma hanno poi vinto i se»: mondo cattivo o umani codardi?
«Siamo noi che siamo schiavi del nostro egoismo. Le scelte difficili ci destabilizzano perché temiamo di perdere quella che pensiamo essere la nostra libertà. Io non ho figli – e rispetto le scelte di tutti – ma mi accorgo che così non si dà una prospettiva, un orizzonte una profondità alla propria esistenza. Non ne ho ancora, però non ci ho mai provato».
Neppure andato vicino?
«Sì, due volte, ma o ero troppo giovane io, o era troppo giovane lei. In entrambi i casi non me la sono sentita».
È vero che da ragazzo è scappato di casa?
«Sì, a 15 anni, sognavo di fare il regista e le colonne sonore dei film dell’orrore. Avevo conosciuto Daria Nicolodi a Cattolica, al Festival del giallo e del mistero: mi diede il suo indirizzo dicendomi "Mandami le tue musiche". Ma è stata gentile come posso essere gentile io con qualcuno che però penso non faccia mai la cazzata di fare l’autostop e venire a casa mia: invece io mi sono presentato e lei mi ha tenuto tre giorni lì con le figlie, c’era Asia che aveva 10 anni. Poi mi hanno invitato a ad assistere alle riprese di Phenomena. Io e Dario Argento siamo molto amici».
Riavvolgiamo: davvero voleva fare il regista?
«Sono figlio di un musicista e ho sempre fatto solo musica: a un certo punto verso l’adolescenza ho avuto un po’ un rifiuto, mi sembrava tutto già troppo scritto. Cercavo una cosa diversa che tradisse la strada già segnata. All’inizio non pensavo nemmeno di cantare, io componevo».
Dalla invece la fece cantare subito, ma è vero che prima lo aveva messo a vendere magliette?
«La storia è così: vado da lui con il radiolone e la cassetta, Lucio ascolta Il mostro: e si mette a piangere. Davanti a una mia canzone e io non ero nessuno: allora piango anch’io, e piangiamo insieme. Poi mi dice: stasera ti faccio cantare. E mi fa cantare. Il giorno dopo esce addirittura un articolo e mi dice: ti tengo in tournée, poi però al pomeriggio mi dice: però non canti stasera, stasera va i vendere le magliette, e io lo faccio. E il giorno dopo di nuovo, ma mentre sono nel baracchino sento che lui sul palco parla di me. Scavalco le transenne, vado a cantare e da lì ho cantato in tutti i concerti».
Il radiolone: altri tempi. Oggi i ragazzi fanno musica in cameretta e la pubblicano subito sui social. Meglio o peggio?
«La fanno in cameretta, ma con Garage Band: col fatto che è il computer a darti tutto il sound e l’arrangiamento c’è gente che non conosce la musica per niente. Può anche andare bene, perché a orecchio in tanti hanno fatto delle belle cose. Ma che non venga chiamata canzone anche quello che non lo è, questo devo dirlo».
Va sempre a letto tardissimo?
«No, oggi ho meno tenuta».
Sta leggendo qualcosa?
«Ho da poco letto una cosa bellissima, le lettere che si sono spediti senza essersi mai incontrati Fellini e Simenon. Stupende».