La Stampa, 16 aprile 2022
La guerra non finirà il 9 maggio
Sono come bolle di sapone, variopinte. Attraversano questi cinquanta tragici giorni di guerra compassate e trottano dietro il loro futuro come se fossero fatti, realtà. Sono le leggende di guerra, le leggende di tutte le guerre. Intendo le leggende, non le bugie di guerra. Assomigliano agli incidenti ai mezzi di trasporto, sempre misteriosi, uno scossone, tutto si ferma, nessuna spiegazione, piano piano si arriva a persuadersi che sono invenzioni del diavolo per non farti arrivare. Lo stesso accade con le leggende, nascono dal nulla e poi sono lì, concrete come il treno immobile. Analizzandole, discutendole, infuriandoci e sentendoci grazie ad esse più ottimisti o più desolati ci avviamo verso un finale ignoto, inimmaginato.
Non parlo delle leggende minori, militarmente banali: che sia il fango ad aver impantanato la ‘’blitzkriegh’’ russa come se i mezzi di Mosca fossero costruiti e immaginati sotto il tepore dei Caraibi. E neppure che l’esercito ucraino, colto di sorpresa e disponendo di mezzi primitivi, ha fermato gli invasori con le bottiglie molotov e i cavalli di frisia fabbricati ammonticchiando i guardaroba. Senza dimenticare i carri armati polverizzati grazie ai droni comprati al fai da te.
Parlo della leggenda più pesante, politico strategica, accettata, citata in ogni dibattito per provare la validità di altre argomentazioni: i piani di Putin, il rischio di una guerra atomica dietro l’uscio, i macelli degli uni e la resistenza epica degli altri. Parlo della data del nove maggio prossimo venturo.
Attraverso vari arzigogoli, rivoluzioni guerre mondiali stalinismi e disgeli, Muri in briciole e restaurazioni, è quello il giorno della festa ufficiale del putinismo, con gran sfilata sulla piazza rossa, con missili e cadette da casting per il concorso di miss Moscovia. Una volta si sfilava in novembre e il "politburo" bolscevico, intirizzito e con il colbacco in testa, sfidava, quasi sempre invano, raffreddori omicidi. Si controllava in tribuna chi c’era e chi non c’era più, se qualcuno era avanzato dalla seconda fila al proscenio e ne uscivano libri di quella che si chiamava cremlinologia. Scienza defunta. Ora tutto avviene al calduccio e sul palco c’è una sola persona, Putin. E non è detto che per la buona salute del mondo sia un passo avanti.
Da alcune settimane è nata la leggenda del nove maggio, ovvero che per festeggiare degnamente questo genetliaco putiniano lo Zar annuncerà la fine delle operazioni speciali in Ucraina. E, più o meno, la vittoria. Insomma sarà la pace o almeno la tregua, il cessate il fuoco di fatto, la sospirata fine di un incubo fino all’8 maggio senza date conclusive.
Non esiste nulla che offrisse a questa profezia un elemento concreto, qualcosa che le facesse metter su pancia e da serva di una guerra piena di misteri ne diventasse padrona. Inutile cercare: neppure una minuscola "fonte anonima’’ che dal Cremlino o da Rostock abbia mai evocato la data fatidica. Sì, ci sono portavoce russi che ogni tanto ripetono che l’operazione ucraina finirà "presto’’. Ma è una strategia propagandistica per dimostrare di aver ancora in mano il filo della ingarbugliata matassa bellica. Invece il 9 maggio è un giorno preciso. E la leggenda la si beve a larghi calici.
Come è nata? Difficile rispondere. Forse da una semplice constatazione di cronologia storica, di quelle che se non ci fosse la guerra non fanno né caldo né freddo, non le si avvertono neppure. Ma che buttate là, in un momento di grande angoscia e passione, mentre tutti vediamo allungarsi queste giornate di una pesantezza di piombo, per l’ammucchiarsi di speranze, per un concorso di semplici parole, ispessendosi, ingrossandosi, via via ci menano laddove tutti vorremo andare, a una conclusione della guerra.
Perché se si riesce a fissare una data finale allora tutto si spiega: come nei gialli se hai la imprudente idea di leggere prima chi è l’assassino. Ad esempio si capisce perché i generali di Putin non hanno attaccato l’Ucraina come gli invasori di buona stoffa, in estate, quando il terreno è bello sodo e non c’è quel maledetto fango sarmatico che impantana cavalli, camion e pedoni. E già. Perché dovevano chiudere entro la data del nove maggio come aveva ordinato il dispotico padrone.
Ma la data è perfetta anche se rovesciate il discorso: ora è chiaro perché invece di spazzar via le città del Donbass come un incendio sterminatore i marescialli e i generali se la sono presa comodissima, avevano tempo fino al nove maggio! Ora però bisogna accelerare.
Putin se la ride respirando malizia delle minacce di veder tagliati i contratti del gas con l’Europa? Perché sa che il nove maggio sarà tutto finito e potrà con grande sospiro di sollievo dei suoi clienti continuare a incassare milioni e miliardi.
In guerra nulla è più insopportabile che non sapere e capire nulla. In fondo le mosse di Putin, che ha adottato una strategia opposta a quella del torrenziale Zelensky, sono avvolte da una totale mistero. Cosa si proponesse all’inizio non lo sa nessuno, forse neppure i suoi più stretti consiglieri: occupare l’Ucraina? Ottenere una nuova Yalta che ridisegni il mondo a sua immagine e somiglianza? Rastrellare qualche chilometro di fango e vecchie miniere di carbone nel Donbass? Se fissiamo un termine al mistero e ci crediamo totalmente, allora alleviamo l’ansia e la vita ci sorride come la più splendida delle invenzioni. Perché se Putin il nove proclama la pace, la sua pace, ce la siamo cavata in fondo senza troppi danni. Possiamo ricominciare a parlargli e fare affari visto che è rinsavito. Quanto agli ucraini daremo loro una mano a ricostruire e tutto sarà dimenticato. Il vecchio mondo non è andato a rotoli. Meno male.
Mentre in realtà quello che ci dovrebbe inquietare è proprio il fatto che il nove maggio, purtroppo, sfilata o non sfilata, sarà soltanto il settantaquattresimo giorno di guerra, e passerà come tutti quelli che l’hanno preceduto. E lo scopo di Putin forse è proprio quello di tenerci avvinti a questa ansia e lui avrà una buona scusa con i russi per restare lì, traboccante di poteri.