16 aprile 2022
In morte di Jean-Paul Fitoussi
Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore
Un economista raffinato e titolato, che parlava di sé come di «un semplice studioso di scienze sociali» e che, in un felice mix di competenza non superba e di curiosità umana, amava stare in mezzo agli imprenditori. Jean-Paul Fitoussi, scomparso ieri a Parigi all’età di 79 anni, ha espresso una voce influente nel dibattito culturale degli ultimi quarant’anni. L’economista applicato francese è stato importante per due ragioni. La prima ragione è il contributo alla costruzione di un europeismo critico. La seconda è il costante interesse per le vicende dell’Italia, a cui ha partecipato con un impegno nei consigli di amministrazione e nelle attività di ricerca e di rappresentanza pari soltanto all’amorevole disincanto che ha riservato alle nostre molteplici mutazioni economiche e sociali, politiche e culturali.
La costruzione di un europeismo critico è stata – anche – l’effetto del lavoro compiuto da direttore dell’Ofce, l’Observatoire français des conjonctures économiques di Sciences Po. La sua matrice era keynesiana e post-keynesiana. La sua idea di politica economica aveva un raggio d’azione ampio e a cerchi concentrici che, dal sostegno della domanda per mirare alla piena occupazione, si allargava fino a un più generale disegno di contrasto all’esclusione e di rimedio alle povertà. Un suo tarlo era costituito dalle ragioni della bassa crescita in Europa. Senza mettere in discussione con atteggiamenti distruttivi l’architettura istituzionale ed economica comunitaria, Fitoussi ha evidenziato le sue manchevolezze e la sua perfettibilità, concentrandosi su una critica ragionata e puntuale alle politiche favorevoli – troppo favorevoli – all’austerità. Dal punto di vista del metodo della ricerca, ha riflettuto – insieme ad esempio ad Amartya Sen e a Joseph Stiglitz – sulla necessità di rimodulare le statistiche economiche arricchendo gli indicatori classici della contabilità nazionale con “pesi” e “misure” del benessere e delle diseguaglianze: le 292 pagine del Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress – con Fitoussi coordinatore operativo e Stiglitz presidente – rimangono utili per chiunque desideri ragionare su forma e sostanza di ogni cambiamento della “scienza triste”.
L’interesse per l’Italia era umano, professionale e intellettuale. Oltre al rapporto nella ricerca e ai legami nella didattica con la Luiss, il confronto con l’Italia dell’economia reale è stato persistente e costante. Lo è stato con le sue imprese e le sue banche: dal 2004 al 2017 è stato consigliere di amministrazione di Telecom Italia, dal 2010 al 2016 è stato membro del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, dal 2013 al 2014 ha fatto parte del board di Pirelli, dal 2009 al 2010 e poi di nuovo dal 2016 è stato amministratore indipendente di Banca Sella Holding. Fitoussi ha peraltro conosciuto l’Italia profonda attraverso la costellazione delle territoriali di Confindustria. Spesso lo si poteva incontrare come conferenziere e discussant alle assemblee. E le sue relazioni erano precise e non noiose, divertenti e capaci di sintonizzarsi con gli umori degli imprenditori italiani, senza lisciare il pelo dei loro vizi, ma al contempo valorizzandone con misura le virtù, in un atteggiamento di stima che la platea sempre ricambiava.
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Stefano Montefiori, Corriere della Sera
«La Francia è più vicina a voi che alla Germania», era solito ripetere Jean-Paul Fitoussi agli interlocutori italiani con i quali amava intrattenersi. Con la sua morte, ieri a Parigi a 79 anni, l’Italia perde un amico e un economista keynesiano che ha spesso espresso la sua perplessità sulle politiche di rigore attuate in Europa, per volere soprattutto di Berlino, dopo la crisi finanziaria del 2008.
Nato in Tunisia il 19 agosto 1942, Fitoussi era professore a Sciences Po a Parigi e alla Luiss di Roma ed è stato a lungo membro del Consiglio di analisi economica, l’organismo incaricato di assistere il governo francese nelle sue decisioni di politica economica. Nel 2014 firmò sul «Corriere» un appello che metteva in guardia contro una tentazione di uscita dall’euro che «distoglie l’attenzione dai reali problemi del Paese, toglie alla politica la responsabilità di fare proposte concrete per risolverli e impedisce all’Italia di contribuire ai necessari cambiamenti della politica europea».
La sua voce influente si è fatta sentire nei momenti più delicati della vita politica ed economica, ma accanto all’apporto teorico Fitoussi non ha disdegnato di impegnarsi nella gestione delle aziende, come quando ha partecipato al consiglio di amministrazione di Telecom Italia o al consiglio di sorveglianza di Banca Intesa Sanpaolo.
Nel saggio del 2013 Il teorema del lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale (Einaudi), Fitoussi scriveva: «Quasi tutti conoscono la storia del tizio che cercava le chiavi sotto un lampione non perché le avesse perse lì, ma perché quello era l’unico punto illuminato della strada. (...) Siamo noi a scegliere cosa occorre illuminare, i fenomeni da analizzare, i sistemi di misurazione che conviene utilizzare, gli obiettivi da perseguire. (...) Da tempo, seguendo il pensiero dominante, i poteri pubblici hanno puntato i riflettori sulla stabilità dei prezzi quale obiettivo della politica economica – che dovrebbe anche consentire la massima crescita del Pil – e sulla teoria dei mercati concorrenziali per legittimare la propria azione. (...) La crescita del Pil si è accompagnata a una profonda miseria sociale e la deregolamentazione dei mercati è stata il preludio al loro peggior funzionamento dai tempi della crisi degli anni Trenta. Non erano stati accesi i lampioni giusti e si è cercato di agire a partire da una rappresentazione teorica del mondo che non aveva molto a che fare con il mondo reale, fissando obiettivi relativamente mal misurati (il Pil, per esempio) e non veramente importanti per le società».
Nel 2019, sempre per Einaudi, il libro-intervista con Francesca Pierantozzi La neolingua dell’economia ovvero come dire a un malato che è in buona salute, nel quale Fitoussi segnala che «le parole più comuni, di cui credevamo di conoscere alla perfezione il significato, ora ci sfuggono. Quello che credevo essere un problema di élite in realtà è un problema di lingua».
La critica
«La visione teorica dominante dei problemi economici non ha molto a che fare con la realtà»
Il termine «populista» per esempio non lo convinceva perché è dispregiativo: «Demagogo mi sembra invece il termine più adatto, perché il populismo non caratterizza il popolo ma chi vuole prendere il posto del popolo».
Fitoussi rifiutava di farsi ingabbiare in modo organico in partiti e movimenti politici, compreso il M5S al quale è stato considerato talvolta vicino, perché «è stata creata una trappola semantica per impedire l’esistenza di qualsiasi altro discorso che non sia quello ortodosso». Nello stesso libro con Francesca Pierantozzi, Fitoussi si dichiara «di sinistra, senza se, senza ma e senza esitazione. Ciò che distingue le diverse teorie dell’economia è il peso che si attribuisce all’intervento dello Stato».
La prestigiosa scuola Sciences Po di Parigi gli ha reso omaggio ieri definendolo «un economista brillante e impegnato, riconosciuto dai suoi pari a livello internazionale, rispettato e amato da generazioni di studenti, ascoltato dai più alti responsabili politici, letto e seguito da un grande pubblico. Jean-Paul Fitoussi è una figura eminente della sua disciplina».
Molte reazioni in Italia, dove il segretario del Partito democratico, Enrico Letta, ha voluto ricordare «un pilastro, un amico al quale devo davvero tanto», mentre il presidente del Movimento Cinque Stelle, Giuseppe Conte, ha detto che «mercoledì siamo stati insieme per due ore a discutere nella sede del movimento (...). Perdiamo un amico che aveva una grande sensibilità per l’impegno politico e sociale a favore di chi non ha voce». Il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, ha lodato «la fede nell’Europa federale e solidale, la critica alle politiche di bilancio basate su parametri rigidi, il sostegno alle misure espansive come motore per la crescita e strumento anti-disuguaglianze, l’analisi mai banale della crisi delle democrazie liberali». Per concludere «con Jean-Paul Fitoussi se ne va non solo un economista vivace e coraggioso, ma un amico di tante battaglie e dell’Italia».
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Anais Ginori, la Repubblica
La notizia della scomparsa di Jean-Paul Fitoussi è arrivata prima in Italia che in Francia, a conferma di quanto forte era il legame dell’economista con il nostro Paese. Keynesiano, attento osservatore dell’attualità economica, politica e sociale, fondatore e a lungo direttore dell’Osservatorio francese delle congiunture economiche, aveva diretto con i Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen la Commissione per le performance economiche e il progresso sociale, che nel settembre 2009 proponeva nuovi indicatori più adatti del Pil per determinare il livello di benessere delle popolazioni.
Nato a La Goletta, centro costiero a pochi chilometri da Tunisi, credeva nell’Europa ed era uno studioso contrario ai dogmatismi dell’economia, attento alle ricadute sociali delle politiche di bilancio. Sempre pronto a criticare l’austerità e le eccessive rigidità che hanno caratterizzato le crisi succedute dal crac della Lehman Brothers, continuava a definire “assurde” le regole del 3 per cento deficit/Pil e più in generale il Patto di Stabilità. Docente a Sciences Po, i suoi lavori più famosi riguardano le teorie dell’inflazione, la disoccupazione, le economie aperte e il ruolo delle politiche macroeconomiche.
L’economista francese, che avrebbe compiuto ottant’anni ad agosto, continuava a fare avanti e indietro in questi mesi tra Parigi e Roma, dove aveva insegnato alla Luiss, era già prevista la sua presenza al festival dell’Economia di Trento nel giugno prossimo. Fitoussi conosceva e amava l’Italia. Del periodo trascorso negli anni Ottanta a Firenze, all’Istituto di Studi Europei di Fiesole, diceva che era stato «uno dei più belli della vita». Era stato inserito nel consiglio di amministrazione di Telecom Italia e del consiglio di sorveglianza di Banca Intesa Sanpaolo. «Apprendo con emozione e tristezza la notizia del grande economista » ha commentato il segretario del Pd, Enrico Letta che fino all’anno scorso era presidente della scuola di affari internazionali di Sciences Po. «Era un pilastro, un amico, al quale devo davvero tanto» ha aggiunto Letta.
Il ministro della Pubblica Istruzione, Renato Brunetta ricorda nell’economista «la fede nell’Europa federale e solidale, la critica alle politiche di bilancio basate su parametri rigidi, il sostegno alle misure espansive come motore per la crescita e strumento anti-diseguaglianze, l’analisi mai banale della crisi delle democrazie liberali». Negli ultimi anni Fitoussi si era avvicinato al Movimento 5 Stelle. «Le sue idee e la sua visione sono diventate parte del nostro programma» ha detto la sottosegretaria Laura Castelli mentre il leader del 5S Giuseppe Conte ha spiegato che l’economista francese avrebbe dovuto inaugurare a breve il ciclo di lezioni magistrali della nuova scuola di formazione del movimento.
Tra i suoi libri più noti Il teorema del lampione (Einaudi), dove esaminava i meccanismi della crisi finanziaria mondiale del 2007. Il pericolo, avvertiva Fitoussi, era anche l’irragionevolezza di voler affrontare l’avvenire cercando soluzioni solo sotto il “cono di luce” del passato. «Come l’ubriaco che cerca le chiavi non dove le ha perdute ma dove c’è la luce del lampione ». Ancora prima, nel 1997, Il dibattito proibito (il Mulino) era stata una coraggiosa denuncia della sottrazione della moneta al controllo democratico. Mai allineato, Fitoussi allertava sui limiti delle teoria economiche, che spesso non reggevano alla prova dei fatti. E così pure gli indicatori sulle quali vengono costruite politiche economiche dei governi.
A proposito del rapporto “La misura sbagliata delle nostre vite” l’economista francese spiegava: «Il Pil sarebbe una misura economica utile se riuscisse almeno a rendere l’idea della distribuzione della ricchezza di una nazione. Però il Pil può avere segno positivo anche quando l’80 per cento della ricchezza va all’1 per cento della popolazione». Un’economia può essere definita in espansione, sottolineava Fitoussi, solo quando l’aumento del benessere è distribuito tra la maggioranza della popolazione. «È una delle tante misurazioni imperfette della contabilità nazionale che non sono tarate sull’appartenenza a una determinata categoria di reddito» proseguiva.
Nello stesso modo l’inflazione non era un parametro completamente affidabile, in quanto colpisce chi ha un reddito più basso perché in gran parte assorbito dall’acquisto di beni alimentari, di benzina e affitto. «Per chi è ricco, invece, queste spese rappresentano una porzione irrilevante del reddito» aggiungeva.
Con la pandemia e la svolta europea del Recovery Fund, Fitoussi aveva preso una sorta di rivincita dopo aver predicato per anni contro l’austerità e in favore di piani di stimoli. «I politici sono costretti a prendere le misure che per decenni hanno deriso» aveva notato su Le Monde , risalendo fino alla rivoluzione conservatrice di Reagan e Thatcher. Nel 2017, aveva chiamato a votare per Emmanuel Macron firmando un appello con una quarantina di economisti, ma poi si era in parte ricreduto sull’operato del giovane leader. All’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina Fitoussi aveva allertato sugli effetti recessivi per l’Europa della guerra e delle sanzioni contro Mosca. «L’inflazione è il modo migliore di aumentare le diseguaglianze » aveva previsto, invitato nella trasmissione Metropolis online sul sito di Repubblica . Tre anni fa aveva pubblicato un manuale ragionato sulla “neolingua dell’economia”, scritto insieme a Francesca Pierantozzi, dal sottotitolo illuminante: “Come dire a un malato che è in buona salute”.
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Stefano Lepri, La Stampa
Negli anni dell’austerità, per biasimarla ci si rivolgeva a Jean-Paul Fitoussi, economista francese, morto ieri a 79 anni. Simpatico, sempre cordiale, parlava con facilità l’italiano e aveva insegnato alla Luiss di Roma. Domenica 24 avrebbe votato per Emmanuel Macron, ma senza entusiasmo, perché dopo averlo sostenuto nel 2017 ne era rimasto profondamente deluso.
Nel suo ultimo libro, apparso nel 2019 (La neolingua dell’economia: ovvero come dire a un malato che è in buona salute, con Francesca Pierantozzi, Einaudi) individuava una ipocrisia di fondo nel modo in cui molti economisti descrivono a realtà; ovvero, una falsificazione a favore del potere e del denaro. Soprattutto se la prendeva contro il concetto di «riforme strutturali».
Nelle sue parole «si ripete, da anni ormai, la necessità di una riforma strutturale. Ma che significa riforma strutturale? Tutti si guardano bene dal dirlo. Eppure non è difficile, ve lo dico io che significa e che cosa bisognerebbe dire senza parlare la neolingua: "faremo in modo che voi lavoratori sarete meno tutelati"».
La battaglia di Fitoussi era cominciata contro gli «aggiustamenti strutturali» negli Anni 90 predicati dal Fondo monetario internazionale ai Paesi in via di sviluppo; era continuata contro le ricette di austerità raccomandate dalla «troika» - la Commissione europea-Bce-Fmi - ai Paesi europei in crisi debitoria nel 2010-11.
Sta di fatto che oggi nella lingua degli economisti «riforma strutturale» non ha più lo stesso significato. Quando ne parla Mario Draghi (che Fitoussi loda per il «Whatever it takes») non intende più precarizzazione del lavoro, e lo stesso Fmi ora raccomanda di spendere nella protezione sociale e di non infliggere una austerità troppo severa, perché lascia «cicatrici» nelle economie.
Da un lato, l’impegno di Fitoussi e di altri come lui è servito a far cambiare almeno parzialmente la rotta delle istituzioni. Dall’altro, alcuni dei suoi timori si sono rivelati esagerati, come i malati greci «lasciati morire senza cure negli ospedali»; il piano «Next Generation Eu» gli è parso un gran passo avanti, benché ritenesse necessario «spendere il doppio».
A più riprese ha sognato una alleanza fra Francia e Italia per spostare su posizioni più espansioniste la politica economica dell’Europa. Il suo bersaglio era la dottrina secondo cui «più il debito pubblico è basso, meglio è per il Paese»; giustificava la Grecia, sostenendo che il debito eccessivo era «un’eredità della sua storia tormentata più che responsabilità diretta del suo popolo».
Nato in Tunisia da una famiglia ebraica sefardita, per 20 anni presidente dell’Ofce, rinomato ente pubblico francese di studi economici, era uno che si impegnava con passione senza abbandonare il rigore scientifico. Di scuola keynesiana, si opponeva al neoliberismo in nome della riduzione delle disuguaglianze, del benessere per tutti, di un’Europa solidale e federale.
Insomma «sono di sinistra – diceva di sé – senza se, senza ma e senza esitazione», perché convinto che l’intervento dello Stato nell’economia possa e debba essere utile, a sostegno dei più deboli, e non vadano tollerate «le sofferenze sociali come la disoccupazione o la precarietà». Ma ha anche criticato le decisioni dell’Antitrust europea contro alcune fusioni tra grandi gruppi.
Nel mondo Fitoussi è anche noto per aver circoscritto l’importanza della misurazione del Pil e aver individuato altri indicatori di benessere, nei lavori della commissione internazionale nominata dal governo francese, da lui coordinata insieme con i premi Nobel per l’Economia Amartya Sen e Joseph Stiglitz. Oltre a loro, altri cinque Premi Nobel si impegnati nei testi per celebrarne i 70 anni.
In Italia, in anni passati, è stato consigliere di amministrazione indipendente di Telecom e membro del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo. Su Draghi come capo del governo Fitoussi ha avuto un cambio di giudizio simile a quello su Macron: all’inizio favorevole, poi critico perché «doveva dare a chi ha di meno, e non lo ha fatto».
Draghi senza rancore lo loda per analisi «brillanti, anticonformiste, mai banali». Romano Prodi aveva un appuntamento di dibattito con lui a fine mese. Lo piangono come «amico» il segretario del Pd Enrico Letta, già suo collega a Scienze politiche di Parigi, i ministri Enrico Giovannini, già membro della commissione sul Pil, e Renato Brunetta, keynesiano del centro-destra.