Corriere della Sera, 16 aprile 2022
La verità in esilio di Steiner
Basta rileggere l’enorme bibliografia di Steiner per capire che siamo di fronte a un modo di procedere che caratterizza sin dall’inizio la sua produzione saggistica. George sfugge, infatti, alle facili classificazioni. Chi cerca di incasellare questo o quel libro sotto una precisa etichetta finisce per essere immediatamente smentito. Questa inafferrabilità rende difficile, probabilmente, qualsiasi semplificazione. Ma il gioco di contrapporre Steiner a Steiner non avrebbe senso se si perdesse la consapevolezza di un pensiero che non può fare a meno della provocazione e del paradosso. Steiner ha abitato la letteratura, l’ebraismo e la vita nelle vesti di ospite «scomodo». Un ospite speciale perché, pur essendo ben radicato nella comunità che lo ha ricevuto, non ha potuto fare a meno di vivere al suo interno per testimoniare, in ogni caso, la sua alterità, la sua diversità rispetto ai valori dominanti. Da qui il suo essere «scomodo»: non perché incapace di esprimere gratitudine, tutt’altro. «Scomodo» in un’accezione ben precisa: di colui che, cosciente di essere ospite, non rinuncia mai a dire la sua, a svelarsi «sgradevole» a chi, in nome dell’accoglienza offerta, non vuole ascoltare parole che inevitabilmente possono provocare fastidio e talvolta anche dolore. Steiner era lì per questo: ha detto, senza nessun rispetto per convenzioni e tabù, ciò che molti non avrebbero voluto sentirsi dire. Si tratta di una scelta consapevole che investe l’essenza stessa della sua vita.
La sua concezione dell’identità ebraica, come vedremo tra poco, trova proprio nella nozione di «ospite» il suo più autentico fondamento. Un’arte difficile da praticare, ma necessaria per rendere l’umanità più umana. Essere ospiti non è un invito a rispettare passivamente le leggi di chi ti accoglie. Al contrario: è un’opportunità per aiutare a migliorare la propria vita e quella in comune. Criticare, correggere, perfezionare sono maniere diverse per aggiungere sempre qualcosa in più, per cercare comunque di avanzare oltre la linea di confine.
È mia convinzione che l’ebreo della diaspora debba sopravvivere con il fine preciso di essere un ospite tra gli uomini. Tutti noi siamo ospiti della vita, gettati nella vita al di là del nostro volere e della nostra comprensione. Ora ci stiamo anche tristemente rendendo conto che siamo gli ospiti di un pianeta devastato. Se non impariamo ad essere ospiti l’uno dell’altro, l’umanità scivolerà nella distruzione reciproca e nell’odio permanente. Un ospite accetta le leggi e i costumi di chi lo ospita, ma può adoperarsi per correggerli. Impara la lingua di chi lo ospita, ma magari cerca di parlarla meglio. Soprattutto, se se ne va, per libera scelta o perché costretto, cercherà di lasciare l’abitazione di chi lo ha ospitato più pulita, più bella di quanto l’abbia trovata. Si sforzerà (il conatus di Spinoza) di aggiungere qualcosa che abbia un valore intellettuale, ideologico, materiale, a quanto ha trovato quando è venuto al mondo.
Per essere più chiaro, proverò a offrire due esempi che riguardano il tema dell’identità ebraica e la funzione parassitaria della critica letteraria. Le posizioni coraggiose – molto coraggiose – che Steiner ha assunto sulla creazione dello stato di Israele rivelano con forza il punto di vista di un ebreo laico: «Purtroppo non riesco a sentirmi parte in causa nel patto contratto con Abramo. Di conseguenza non possiedo un certificato di proprietà, divinamente controfirmato, per qualche agro di terra nel Medio Oriente – o in qualsiasi altro luogo. È la pecca logica del sionismo, di un movimento politico-secolare, quella di invocare una mistica teologica e scritturale che esso stesso, se guarda in faccia la verità, non può sottoscrivere».
Il fatto che Israele sia «un miracolo indispensabile» – con tutte le motivazioni che ne spiegano l’esistenza – non giustifica agli occhi del critico «l’edificazione di uno stato-nazione armato fino ai denti» che per sopravvivere è costretto a considerare «la tortura come una normale pratica di governo». L’ospite scomodo, pur avendo fatto della Shoah e della questione ebraica uno dei nodi centrali della sua produzione saggistica, non esita però a pronunciare parole che suonano come una provocazione per una gran parte della comunità a cui appartiene. Si tratta di una posizione aperta, fondata essenzialmente su una visione laica. Per queste ragioni, il tema dell’ebraismo figura come un pilastro tra i saggi che hanno dato vita a uno splendido volume intitolato I libri che non ho scritto. Qui, in maniera magistrale, George racconta le motivazioni che, nel corso degli anni, gli hanno impedito di portare a termine libri «che avevo avuto la speranza di scrivere ma che poi non ho scritto». Per lui ogni forma di «privazione», proprio perché più forte «del rifiuto di una possibilità», finisce per provocare conseguenze che non possiamo prevedere o valutare con precisione».
Ecco perché il saggio dedicato a Sion si configura come un capolavoro in cui contraddizioni e lacerazioni contribuiscono a illuminare un’appassionata critica a ogni forma di nazionalismo, di violenza e di tortura: «Sostanzialmente privo di potere per quasi duemila anni, l’ebreo in esilio, nel suo ghetto, nel mezzo dell’ambigua tolleranza della società dei gentili, non aveva una posizione da cui perseguitare altri esseri umani. Non poteva, per quanto fosse giusta la sua causa, torturare, umiliare, né deportare altri uomini e donne. Questa era la singolare nobiltà dell’ebreo, una nobiltà che ai miei occhi è più grande di qualsiasi altra. Per quanto mi riguarda, considero un assioma chechiunque torturi un altro essere umano seppur costretto da una necessità politica o militare, chiunque umili sistematicamente o privi della casa un altro uomo o donna o un bambino, perda l’essenza della propria umanità».
Per Steiner, l’imperativo della sopravvivenza» ha progressivamente ridotto «la condizione dell’ebreo a quella di un nazionalista qualunque»: «(...) le ambiguità etiche del suo insediamento in quella che era la Palestina (attraverso quale sofisma un israeliano non credente, non praticante fa appello alla promessa di Dio ad Abramo?), hanno obbligato Israele a torturare, a umiliare, a espropriare, anche se spesso in misura minore dei suoi nemici arabi e islamici (...).