Corriere della Sera, 16 aprile 2022
Biografia di Liliana Cavani raccontata da lei stessa
Regista senza età, Liliana Cavani ha già messo in cantiere un altro film: «Lo girerò a settembre». Non pare un caso che s’intitoli L’ordine del tempo. Sarà tratto dall’omonimo saggio del fisico Carlo Rovelli. Cavani lo vede scorrere, il tempo, dalle finestre della sua casa di Trastevere, affacciata sull’Isola Tiberina che da almeno 2.500 anni divide in due il fiume di Roma. A volte le capita persino di anticiparlo, come quando nel 1964, con Gesù mio fratello, fece conoscere a tutti («a me per prima: non sapevo nulla di lui») la figura di Charles de Foucauld, l’ufficiale francese di cavalleria che divenne frate trappista e si ritirò da eremita a Tamanrasset, nel Sahara algerino, dove morì nel 1916: il prossimo 15 maggio papa Francesco lo proclamerà santo. «Ma non credo che la tv riproporrà quel documentario».
Approdò in Rai nel 1961, al pari del direttore generale Ettore Bernabei.
«A ogni mia inchiesta, tremava. La prima puntata di La casa in Italia durava 50 minuti. L’ultima, a forza di tagli, 20».
Lo credo: Bernabei era l’uomo di fiducia di Amintore Fanfani. Piano Ina casa.
«Non avevo mai visto Napoli: i bimbi vivevano per strada, senza mutande. A Matera la gente stava nelle grotte con le pecore. Le scene delle borgate romane commossero Paolo VI: regalò un alloggio a una coppia. Era costretta con quattro figli in due stanze, eppure ospitava una madre mendicante con il figlioletto».
Lei è l’unica regista ad aver dedicato tre opere a Francesco d’Assisi. Perché?
«Tutto nacque nel 1966 da un libro pubblicato 70 anni prima da un medievista protestante di Ginevra. Era all’Indice. Mi capitò in mano per caso. Meraviglioso. Ne parlai in Rai con Angelo Guglielmi. Si entusiasmò, ma aveva a disposizione solo 30 milioni di lire. Trovò un produttore, Leo Pescarolo, che voleva fare il suo primo film. Una troupe di sette persone e appena cinque settimane di lavoro. Ad appoggiarmi c’era Pier Emilio Gennarini, braccio destro di Bernabei».
Bernabei mi confidò che gli diceva: «Occhio a chi ci prendiamo in casa, Gennarini!». E lui: «Tranquillo, direttore, questo è un democristiano di ferro». E Bernabei: «Ma almeno crede in Dio?».
«Per sponsorizzare il mio Francesco, Gennarini organizzò una proiezione segreta con i fanfaniani e un ex avvocato molto amico di Giulio Andreotti e Alberto Sordi, Francesco Angelicchio, il primo prete italiano dell’Opus Dei, ordinato dal futuro santo Josemaría Escrivá de Balaguer. Fu lui a salvare il film dal rogo».
Lo intervistai nel 2008 e mi parlò benissimo di Liliana Cavani. Morì nel 2009.
«Mi telefonò un nipote: “Lo zio mi ha chiesto di avvisare pochi amici dopo la sua scomparsa. Lei è fra costoro”».
Ma non era atea?
«Non posso dire di esserlo. Vengo da una famiglia laicissima di Carpi, questa sì atea. Il nonno materno, un sindacalista socialista, chiamò i figli Libero e Libera. Però feci la prima comunione e la cresima. Nel 2005 fui chiamata in Vaticano a presentare ai cardinali l’enciclica d’esordio di Benedetto XVI, Deus caritas est».
Filiberto Guala, il primo amministratore delegato che poi si fece trappista, Gennarini e Bernabei assunsero in Rai molti non credenti. Non è strano?
«Le cose strane capitano. Io entrai per concorso. Era il 1960. Ci presentammo in 11.000 per 30 posti. Dopo lo scritto, ci avevano ridotti a 130. Gennarini mi fece diventare aiuto regista di Dino Risi, che girava documentari per la tv. Venivo da lettere antiche e mi ritrovai a occuparmi di Terzo Reich, Vichy, Pétain, Resistenza. Posso dire che la storia del Novecento l’ho imparata dai miei programmi».
Girò «Clarisse», sulle suore di clausura. Cos’è? Fascinazione per il divino?
«No. Ma quelle monache sono la quintessenza dell’umano. Per loro tutto è sacro. Lo trovo stupendo. Avevo in animo anche una fiction su santa Francesca Cabrini, patrona dei migranti. È saltata».
Ha ripiegato su Alcide De Gasperi.
«La serie tv non andava in onda. Conoscevo la segretaria di Pier Ferdinando Casini. Convinse il presidente a proiettarla alla Camera. E in Rai cadde l’embargo».
Maria Romana, la figlia di De Gasperi, mi disse: «Far morire la Dc fu una follia. Fossi stata nei panni di Mino Martinazzoli, mai avrei firmato l’atto di decesso».
«Fui tra i fondatori dell’Ulivo. Il meglio della Dc cercammo di salvarlo. Sono legata alla figura di Odoardo Focherini, nato come me a Carpi. Salvò dalla deportazione 110 ebrei. Fu catturato dai nazifascisti. Morì nel lager di Hersbruck. Oggi è beato. Il suo nome figura fra i Giusti delle Nazioni nello Yad Vashem».
La sua è una spiritualità inquieta.
«Sono religiosa».
Come Roberto Rossellini, sul quale in Vaticano malignavano: «È al servizio di Propaganda Fide». Perché faceva tanti figli con donne diverse e li battezzava.
«I figli non mi mancano. Ho ricordi troppo brutti di mio padre. Non mi disse mai brava. Lasciò mia madre per un’altra donna, perciò decisi di adottare il cognome della mamma. Rifiutai una cinepresa che voleva donarmi per rappacificarsi».
Ha mai sentito il bisogno di pregare?
«Ma io prego».
Monsignor Angelicchio mi raccontò che il cardinale Achille Silvestrini gli rivelò: «In punto di morte Federico s’è confessato». Parlava di Fellini.
«Conoscevo Silvestrini. Non so se avrò mai un confessore. Sento il desiderio di capire ciò che le parole non possono spiegare. Chimicamente, la morte non esiste, perché diventiamo un’altra cosa. L’abbiamo schiacciata, vilipesa, la morte. San Francesco la chiamò sorella e la accolse sorridendo, come un fatto logico».
Da quanti anni non torna a Carpi?
«Ci sono stata in autunno. Ho un cugino cui voglio bene e tanti amici. Non c’è più il cinema Fanti, dove la mamma mi portava già a 3 anni. L’amore per il grande schermo è nato lì. E ancora resiste».
Guarda i film sul piccolo schermo?
«No, vedo le serie tv in casa di amici. Mi sono piaciute Chiami il mio agente! e The Crown. Ma non sono abbonata né a Netflix, né ad Amazon Prime, né a Sky».
Fedele al suo rapporto con la Rai.
«Non esiste più. C’era quando stavo in consiglio d’amministrazione, con Enzo Siciliano presidente. Durò appena 18 mesi. Dopodiché Massimo D’Alema prese il posto di Romano Prodi al governo».
Che cosa ama vedere in televisione?
«Il cinema inglese. Tentai d’introdurre in Rai la linea portata nella Bbc da David Puttnam, produttore di Fuga di mezzanotte, Momenti di gloria, Urla del silenzio e Mission: meno film americani, più film europei. Sarebbe potuto nascere il nuovo cinema italiano».
Ma da noi è pieno di registi esordienti.
«Nel nostro Paese si girano 15o film all’anno. Non so se sia un bene. Magari ne basterebbero 50, a condizione che fossero sofferti, sentiti, necessari».
Non c’entreranno le Italian film commissions e le norme sul tax credit?
«Beh, di sicuro c’entrano i contributi pubblici, il che è positivo. L’autore è innocente. Però non so che cosa accada intorno a lui. Preferisco non indagare».
Sa dirmi perché i figli dei maestri quasi mai superano i padri? Penso ad Alessandro Gassman o a Christian De Sica.
«È un disegno che ci sfugge. Si nasce un po’ qua, un po’ là... Se dovessi salvare un solo film italiano, sceglierei L’oro di Napoli di Vittorio De Sica».
Ma il suo regista preferito chi è?
«Ingmar Bergman. Mi ha insegnato il cinema a basso costo e la scelta degli attori. Per Galileo andai a Londra. Un’agenzia mi presentò Cyril Cusack, che veniva dall’Abbey Theatre. Pensai: eccolo! Senza di lui, sarebbe stato un altro film. Bernabei lo rifiutò. Fu venduto alla Cineriz, che lo cedette a Mediaset. Più visto».
Nel 1968 presentò «Galileo» a Venezia mentre i carri armati sovietici soffocavano nel sangue la Primavera di Praga.
«Che facciamo al Lido?, corriamo ad aiutare i cecoslovacchi, gridavo ai contestatori. Ho pensato la stessa cosa per l’Ucraina. Vorrei essere a Kiev. Vedo qualcosa di terribile: l’immoralità. Tucidide, V secolo avanti Cristo, nella Guerra del Peloponneso scrive che gli dei ce la faranno pagare. Rimane solo il Papa a sgolarsi, poveretto. San Francesco parlava di fraternitas nel 1200, la Rivoluzione francese di Fraternité. Il progresso mi ha deluso».
I russi lei li ha conosciuti bene.
«Non questi russi. Ai tempi di Michail Gorbaciov mi chiamarono a presiedere il Festival cinematografico di Sochi. Videro per la prima volta i miei film: Il portiere di notte, Al di là del bene e del male, Francesco. Finita una proiezione, si alzò una donna del popolo e chiese: “Dov’è finita l’anima? Non c’è più nella nostra cultura”, e si asciugava le lacrime».
Crede che Liliana Segre potrebbe vedere con serenità «Il portiere di notte»?
«Difficilmente. Bisogna prenderlo per quello che è: il percorso psicologico di una donna che, ritrovato colui che l’aveva seviziata nel lager, ne resta soggiogata. Una storia vera, narratami da un’ex partigiana milanese scampata ad Auschwitz. “Non perdonerò mai ai nazisti d’avermi fatto incontrare una parte di me che non avrei voluto vedere”, si colpevolizzava».
S’immaginava i successi che ha avuto?
«A dire il vero, da filologa della lingua arrivai a Roma nel 1959 avendo nelle tasche del loden i titoli dei testi da consultare nella Biblioteca Vaticana per scrivere un’edizione critica dei Commentarii di Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II».
Qualcuno dei suoi attori si fa vivo?
«Charlotte Rampling e Mickey Rourke a Natale mi telefonano per farmi gli auguri. Charlotte volle che fossi io a presentarla al Festival di Berlino, quando le diedero il premio alla carriera. Proiettavano Il portiere di notte. Ci aspettavamo fischi sonori, volevamo uscire prima che si accendessero le luci in sala. Invece ci coprirono di applausi. Il mondo va avanti».