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 2022  aprile 17 Domenica calendario

La partita di tennis in Cile che sfidò la storia

L’Italia è la squadra da battere. Lo sport è il tennis. Gli anni quelli che dal 1976 vanno al 1980. La squadra è composta da Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Adriano Panatta e Tonino Zugarelli. Con il capitano non giocatore Nicola Pietrangeli (da poco ritirato dall’attività agonistica), nel 1976 si aggiudicano, nel Cile di Pinochet, l’unica Coppa Davis vinta dal nostro Paese nei 122 anni della competizione mondiale a squadre. Arriveranno in finale altre tre volte: nel 1977 contro l’Australia, nel ’79 contro gli Stati Uniti e nell’80 contro la Cecoslovacchia. 
A quella squadra il produttore Domenico Procacci, per la prima volta anche regista, dedica una docuserie in sei puntate intitolata semplicemente Una squadra. Quasi cinque ore di racconto – prodotte da Fandango, Sky e Luce Cinecittà – che debuttano il 14 maggio su Sky Documentaries. «La serie attraversa un decennio, sforando prima e dopo le finali», spiega il regista a «la Lettura»: «Racconta i giocatori, i loro inizi ma anche la chiusura delle loro carriere». E lo fa attraverso le voci dei cinque protagonisti che Procacci ha intervistato singolarmente, in luoghi e momenti diversi. 

Le interviste confluiranno anche in un libro, che esce il 12 maggio per Fandango Libri. Ma prima, il 2, 3 e 4 maggio, nei cinema passa un’anteprima di 90 minuti, versione rivisitata dello speciale presentato in novembre al Torino Film Festival. Il film si concentra sulla vittoria del 1976. L’accesa polemica politica sull’opportunità di andare a giocare in Cile, mentre gli orrori del golpe (1973) erano ancora negli occhi di tutti. L’arrivo a Santiago. Le partite giocate nel complesso dell’Estadio Nacional che poco prima era stato un lager. La maglietta rossa indossata da Panatta e Bertolucci per il doppio: un messaggio contro la dittatura che allora passò inosservato – l’idea, ricostruiscono sullo schermo, fu di Panatta: «Mica entriamo in campo facendo declamazioni contro il regime di Pinochet. Mettiamo la maglietta rossa e chi vuole capire, capisca». Poi, il ritorno in Italia nell’indifferenza generale. I contrasti, il successo... 
A ripercorre quell’era con «la Lettura» sono Domenico Procacci (Bari, 1960) e Adriano Panatta (Roma, 1950).
Come è nata «Una squadra»?
DOMENICO PROCACCI — Adriano, in particolare, e tutta la squadra sono miti per la mia generazione, per chi come me da ragazzo ha giocato a tennis per divertimento. Si dice che non bisognerebbe avvicinare i propri miti perché si rischia di rimanere delusi. Quando io li ho conosciuti è accaduto l’opposto. L’idea mitica che mi ero fatta non si è affatto...
ADRIANO PANATTA — Confermata...
DOMENICO PROCACCI — No, invece si è rafforzata. Dopo i primi racconti ho iniziato a studiarvi. Sono partito dalla finale del ’76. Sul Cile c’è stato il documentario di Mimmo Calopresti (La maglietta rossa, 2009); credevo ci fosse ancora spazio per raccontare i protagonisti. Dario Cresto-Dina lo fa molto bene in Sei chiodi storti (66thand2nd). Ci sono anche altri libri usciti nel quarantennale: quelli di Lucio Biancatelli (1976, storia di un trionfo, Ultra) e Lorenzo Fabiano (Coppa Davis 1976. Una storia italiana, Mare Verticale). Ho pensato valesse la pena raccontare per immagini le loro storie e la loro storia insieme. Mi ero appassionato a The Last Dance, serie sul basket, sport che non conosco: i personaggi erano belli, forti, narrativamente interessanti nella loro interazione... Quelli della storia che volevo narrare lo erano altrettanto.
Adriano Panatta, che cosa l’ha colpita del progetto?
ADRIANO PANATTA — All’inizio non volevo mettermi in mostra e temevo che si parlasse ancora solo del Cile. Mi è piaciuto che Domenico volesse raccontare la storia di questi ragazzi molto diversi che hanno fatto un percorso insieme; che volesse parlare di «una squadra» quando il tennis è uno sport individuale e i tennisti sono egocentrici. Fuori dal campo non ci frequentavamo, ma in Coppa Davis si creava una speciale alchimia. La serie ci racconta da ragazzi, la crescita con il nostro maestro (Mario Belardinelli, ndr), le vittorie, le sconfitte, i contrasti. All’anteprima di Torino è successo qualcosa di straordinario, un fenomeno di amicizia e ricongiungimento non dico alla Carràmba! Che sorpresa, ma quasi. Oggi siamo persone diverse, ma è emerso un sentimento importante che da ragazzo uno non vuole esprimere o ammettere. Ora quando ci scriviamo nella nostra chat mi fa molto piacere. Nella serie non parliamo tra noi ma è uscito tutto, le personalità di noi quattro e di Pietrangeli... Quando in un gruppo c’è una storia di vita vissuta insieme anche i contrasti assumono altri colori, si attenuano... Ma non vorrei essere troppo sentimentale. 
DOMENICO PROCACCI — Di quella squadra è nota la grande conflittualità, soprattutto tra Corrado Barazzutti e Adriano, le difficoltà con Nicola Pietrangeli (esonerato dopo la sconfitta del ’77, ndr), la squadra divisa: da una parte Panatta e Bertolucci, dall’altra Barazzutti e Zugarelli. Volevo capire come fosse possibile che una squadra così frammentata avesse raggiunto quel risultato. E non intendo vincere la Coppa Davis nel ’76. Loro quattro sono stati qualcosa di unico: hanno raggiunto 4 finali in 5 anni. Non è un caso; non è il Cile che arriva in finale perché l’Urss rifiuta di incontrarlo; non è un tabellone favorevole. Vuole dire essere la squadra da battere. Inoltre: Adriano vinse gli Internazionali di Roma nel ’76 e tornò in finale nel ’78 contro Björn Borg; Zugarelli arrivò in finale nel ’77: non è più successo. Nelle interviste ho scoperto la verità: cercavo di provocarli per fare emergere i contrasti, ma venivano fuori stima e amicizia, che magari negavano... 
ADRIANO PANATTA — La forza di quella squadra era che ci compensavamo nel tipo di gioco, nelle prestazioni. Corrado era fortissimo, straordinario sulla terra battuta. Di solito giocavamo io e lui nel singolare e sapevo che lui un punto lo portava matematico. Non è mai successo che perdesse due singolari, giusto?
DOMENICO PROCACCI — È successo, a Roma nel 1980 contro l’Australia. 
ADRIANO PANATTA — Non ricordo più niente... Comunque: io e Paolo in doppio, onestamente, eravamo una coppia molto forte. Nel singolare io facevo uno o due punti... Ma non sono sempre stato protagonista delle grandi vittorie: ho avuto anche belle débâcle. Non ultimo c’era Tonino che quando è stato chiamato a giocare, come a Wimbledon sull’erba contro l’Inghilterra, ha risposto e vinto bene. Contro la Polonia, Bertolucci si fece male e io volli giocare il doppio con Corrado: quando bisognava vincere, gli screzi non hanno mai inficiato nulla. In Coppa Davis eravamo davvero una squadra.
Nella serie i racconti si intrecciano e dialogano. I punti di vista sono messi a confronto. 
ADRIANO PANATTA — Il montaggio è straordinario. Prima, Domenico, parlavi della serie su Michael Jordan? 
DOMENICO PROCACCI — Sì. 
ADRIANO PANATTA — Quella è un po’ ripetitiva, devo dire. 
DOMENICO PROCACCI — Se vogliamo fare paragoni, giochiamo di più sul montaggio. Abbiamo costruito le interviste per creare un dialogo a distanza. Non ci sarebbe stato un narratore, era chiaro fin dall’inizio per me e gli altri autori – Sandro Veronesi, Lucio Biancatelli e Giogiò Franchini, che firma il montaggio (abbiamo avuto la consulenza di Mario Giobbe, la cui voce annunciò in radio la vittoria in Cile, e Luca Rea). Il racconto sarebbe stato affidato ai protagonisti. Il montaggio ha aggiunto un po’ di cinema. 
ADRIANO PANATTA — Sei riuscito a metterci tempi comici incredibili. 
DOMENICO PROCACCI — Tu e Paolo li avete. Sareste stati un grande duo della commedia italiana.
La serie riporta agli anni Settanta, gli anni di piombo. Cosa furono per voi? 
ADRIANO PANATTA — Eravamo sempre all’estero. Le notizie dall’Italia non arrivavano in tempo reale, i particolari sfuggivano. Quando si tornava, in base alla sensibilità ognuno aveva le proprie reazioni a quel che accadeva. La contestazione per la finale in Cile mi fece traballare. Solo Nicola l’ha vissuta ogni giorno: nei dibattiti s’è battuto per la trasferta. Eravamo convinti di dover andare; ma devo dire che questa cosa l’ho sentita... 
Lei veniva chiamato in causa direttamente nelle manifestazioni.
ADRIANO PANATTA — Non era per stupidaggini come «Pinochet sanguinario, Panatta milionario»... ma per il discorso politico serio: sei hai certe convinzioni ci pensi. 
Allora, Modugno cantava «ma non mischiamo con faciloneria la dittatura alla democrazia»; Tognazzi diceva: «Esporteremo automobili, importiamo rame cileno. Perché non vogliamo esportare Panatta?». Pietrangeli discusse con Andreotti. Il Pci si oppose alla trasferta fino all’invito, rivelato vent’anni dopo da Ignazio Pirastu, del partito comunista cileno ad allentare il boicottaggio, per evitare che Pinochet lo volgesse a suo favore... 
DOMENICO PROCACCI — In generale, erano anni in cui sport e politica si contaminavano spesso. Anche nel 1974 c’erano state polemiche sulla trasferta in Sudafrica, per l’apartheid. C’erano situazioni difficili, ma erano anni difficili. Nel ’76 fu molto bravo Pietrangeli e poi sono scesi in campo altri «giocatori». Ma quella finale fu giocata e ha portato l’unica vittoria italiana in Coppa Davis. 
Vittoria che allora passò in sordina. 
ADRIANO PANATTA — Ci colleghiamo alla maglietta rossa. Nessuno sapeva che l’avremmo indossata. Pietrangeli, la federazione e la stampa presente in Cile non se ne accorsero. Nessuno ci chiese il perché. La questione è uscita dopo trent’anni ed è diventata un simbolo. Oggi che ho qualche decennio in più e vedo come va il mondo, trovo anche normale l’ipocrisia che ci fu, ma allora ci rimasi un po’ male. Al di là della vittoria, del Cile ricordo l’atmosfera. Noi stavamo solo in albergo o sul campo, però cercavo di parlare con le persone del posto per capire quello che vedevo da lontano. Coglievo il timore nel parlare di certe cose. Era chiaro che era un Paese piegato, che però affrontava la grande ingiustizia subita con nobiltà. In Sud America il tifo era solitamente duro. Il pubblico cileno ci ha invece applaudito: un tributo che in Coppa Davis non ho mai ricevuto... Anche perché nel torneo ho avuto varie vicissitudini che si vedranno nella serie... Talvolta ho anche litigato... 
DOMENICO PROCACCI — Spesso... 
ADRIANO PANATTA — Comunque in quel campo l’atmosfera era serena: si faceva solo sport.
Lo sport ha ancora valenza politica?
DOMENICO PROCACCI — È stato ed è spesso usato come strumento di propaganda. Del resto, alzare una bandiera è un gesto politico. 
Tra le sanzioni contro la Russia per l’invasione dell’Ucraina ci sono quelle sportive, nel tennis l’esclusione dalla Coppa Davis. E a Wimbledon si discute sulla presenza degli atleti russi e bielorussi. 
ADRIANO PANATTA — Lo sport si usa anche per fare pressioni. Sui giocatori a cui forse sarà proibito giocare a Wimbledon ho dei dubbi. Non so come la pensano Daniil Medvedev o altri sulla guerra in Ucraina, ma capisco che per loro possa essere molto rischioso fare dichiarazioni contro Putin. Il popolo russo non è responsabile diretto di ciò che succede, lo sono i governanti. Il governante. Le più belle manifestazioni di protesta nello sport verso il «potere politico» sono state due. Nel 1967, quando Muhammad Alì rifiutò di arruolarsi per il Vietnam. E il pugno chiuso con il guanto nero alzato da Tommie Smith e John Carlos nel ’68 all’Olimpiade del Messico per i diritti civili. Manifestazioni contro il potere politico del loro stesso Paese.

Quelli affrontati nella docuserie furono anni grandiosi per il tennis italiano. Il 1976 fu l’anno d’oro di Panatta: vincitore anche a Roma e al Roland Garros. Cosa ne è rimasto in eredità? 
DOMENICO PROCACCI — L’eredità c’è stata fino a un certo punto. Ci sono stati grandi giocatori ma mai più un momento come quello. Almeno fino a oggi. Non era mai successo che un italiano, Berrettini, arrivasse in finale a Wimbledon. Lo dice bene Zugarelli: quegli anni cambiarono il tennis in Italia. Da sport d’élite diventò popolare: la gente ha iniziato a giocare a tennis perché c’era Panatta. Ad alcuni piaceva Tonino, Paolo, Corrado... Ma Adriano era un fenomeno non solo per i meriti sportivi. Tutta quella visibilità magari a te non ha fatto piacere, ma fu positiva per il nostro tennis. Tanti marchi sportivi sono diventati importanti nel mondo: Superga, Fila, Tacchini. Esagero? 
ADRIANO PANATTA — È vero. Sono nati tanti circoli e i genitori hanno iniziato a iscrivere i figli alle scuole di tennis. A livello industriale ci furono investimenti importanti soprattutto nell’abbigliamento, con marchi che hanno raggiunto una posizione importante per il Pil italiano e hanno fatto fortuna in tutto il mondo. 
Nei giocatori di oggi rivede la squadra di allora? Quello che siete stati?
ADRIANO PANATTA — Purtroppo la Coppa Davis non è più quella di una volta. Ma loro sono tutti bravi ragazzi... Berrettini, Sinner, Fognini (anche con le sue estemporanee manifestazioni), Sonego... Sto dimenticando qualcuno?
DOMENICO PROCACCI — Musetti.
ADRIANO PANATTA — Un bel gruppo di ragazzi forti. Mancano le vittorie: a Roma, che è il simbolo del tennis italiano; e nei tornei del Grande Slam: Berrettini ci è andato vicino. Ma hanno le qualità per raggiungere il top del tennis mondiale.