La Lettura, 17 aprile 2022
Nei consumi di frutta si allarga il gap tra ricchi e poveri
Quanto è importante mangiare frutta? L’Organizzazione mondiale della sanità non ha dubbi: per stare bene, dobbiamo assumerne almeno cinque dosi al giorno, circa 400 grammi. Gli italiani sono decisamente i più propensi a consumare frutta in Europa, sia per quantità sia per frequenza (più che verdura, per la quale risultano terzi dopo irlandesi e belgi). E amano un paniere di prodotti diversi; nell’ordine: mele, arance, banane, angurie, pere, pesche, clementine, meloni, limoni e uva (Coldiretti). Non è un fatto sorprendente, se pensiamo al ruolo di queste derrate nella dieta mediterranea, incoronata dall’Unesco nel 2010 come Patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Alla base dell’ideale piramide che rappresenta questa dieta «perfetta», troviamo infatti un largo consumo di frutta, insieme a verdura e pane/pasta.
Aggiungiamo pure che l’Italia è il Paese europeo con più specialità a denominazione di origine – 99 prodotti – e possiede un ambiente geografico così variato, dalle montagne al mare, che consente di avere prodotti freschi praticamente tutto l’anno.
Ma questa fotografia presenta anche dettagli inaspettati. I dati dell’Istituto superiore di sanità mostrano che il maggiore consumo di frutta non avviene nelle regioni meridionali produttrici, ma in quelle settentrionali (con l’eccezione virtuosa della Sardegna, in cima alla classifica con Liguria e Trentino). Risulta poi che il consumo di frutta varia con l’età: solo dopo i cinquant’anni se ne mangia in abbondanza, mentre bambini e adolescenti restano molto al di sotto delle razioni raccomandate. Inoltre le donne ne consumano più degli uomini. Tutto sta a indicare che mangiare frutta, anche in un Paese di grandi tradizioni come l’Italia, sia un elemento culturale non scontato, ma acquisito con il tempo e lo sviluppo di una cultura dietetica attenta alla salute.
Come ha inciso su questo quadro la pandemia? In modo profondo. Nel periodo iniziale del lockdown la spesa per la frutta è decisamente cresciuta (+9%), al pari di quella di molti prodotti alimentari, focalizzandosi sui frutti ritenuti più salutari: di qui il boom di arance e anche di kiwi, ricchi di vitamina C. In parallelo si è registrata la diminuzione dei prodotti di IV e V gamma, cioè di quelli già lavati, tagliati e confezionati pronti per il consumo, visto il maggiore tempo a disposizione. Questa attenzione agli aspetti legati alla salute ha favorito anche il perdurante trend di attenzione ai prodotti biologici.
Un secondo aspetto è stata la marcata preferenza per la frutta di origine italiana, magari a chilometro zero, a filiera controllata o garantita da marchi come Denominazione di origine controllata (Dop) o Indicazione geografica protetta (Igp), sinonimi di affidabilità. Si è confermato così il valore del territorio nel comporre la dieta e anche l’apprezzamento per la qualità dei prodotti italiani.
Questo ci porta a un’ulteriore novità: la diversificazione dei punti di acquisto, con in primo piano supermercati grandi e piccoli, negozi di vicinato ma anche aziende agricole – tutti raggiungibili con i nuovi sistemi del food delivery e soprattutto degli ordini online. Qui si è verificata una piccola rivoluzione che ha fatto balzare l’Italia in alto nelle classifiche internazionali, avvicinandola di colpo ai Paesi nordeuropei da tempo abituati a questi acquisti.
L’ultimo elemento che è emerso con forza nella pandemia è il problema economico. Già rilevante a partire dalla crisi del 2008 e accentuato dalla riduzione del lavoro o dalla forzata inattività, ha spinto molti a studiare strategie diverse per difendere in qualche modo il proprio potere di acquisto. Anche perché una buona parte della crescita delle vendite di ortofrutta era dovuto all’aumento dei prezzi più che alle quantità effettivamente consumate. Così si sono privilegiati discount e mercatini a basso costo, ridotti gli sprechi alimentari, sostituiti i prodotti già lavorati industrialmente con beni di base (ad esempio meno succhi pronti e più agrumi freschi) e infine privilegiati marchi poco noti o del distributore rispetto a quelli più cari e famosi.
Molto di tutto questo è un lascito che ritroviamo oggi e ci accompagnerà nel futuro. L’attenzione agli aspetti salutistici del consumo di frutta e della dieta in generale, nonché ai prodotti biologici, sono e diventeranno ancora più diffusi. Ugualmente consolidato è l’apprezzamento dei prodotti made in Italy rispetto a quelli di importazione, per la loro qualità e anche per limitare le conseguenze dannose per l’ambiente di carichi di frutta che viaggiano in aereo o in nave da un capo all’altro del mondo. La rivoluzione dello shopping online poi proseguirà, visto che i consumatori hanno compreso i vantaggi che può portare, in abbinamento con il commercio di vicinato, che pure ha ripreso fiato.
Forse il lascito più negativo che ci resta è un allargamento della forbice reddituale tra famiglie benestanti e famiglie in difficoltà, che rischia di accentuarsi con la fiammata inflazionistica. Il risultato è che le prime potranno godere di un consumo di frutta composta da prodotti di alta qualità, bio, a chilometro zero; mentre le famiglie indigenti saranno costrette a ripiegare su prodotti a basso prezzo, indipendentemente dalla qualità e origine geografica. Un consumo crescentemente polarizzato, dunque. La speranza è che la dieta italiana possa trovare nuove strade per resistere in questa difficile congiuntura, come è storicamente successo in altre crisi del passato, e diventare anzi uno dei simboli del made in Italy da difendere.